Di Francesca Paola Moretti

Considerando gli eventi negativi in atto nel mondo, una domanda ha fatto capolino nei miei pensieri, o meglio due: “Perché leggere i poeti ermetici?”, “Ha ancora senso studiare le loro opere?”.
Io ho sempre amato le poesie di Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, di quest’ultimo, in particolare, adoro Alle fronde dei salici, anche se ad onor del vero, la poesia, che appartiene alla raccolta Giorno dopo giorno, segna il passaggio dal periodo degli scritti ermetici di Quasimodo, in cui prevalgono la rievocazione e l’osservazione della realtà, al periodo delle opere di natura civile e politica.

Alle fronde dei salici
E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese
oscillavano lievi al triste vento”.

In questa lirica è presente un parallelismo con il Salmo 136 del Testo Sacro: “Come canteremo il cantico del Signore/su terra straniera? Ai salici, in mezzo ad essi/appendemmo le nostre cetre”. Altrettanto triste la situazione del popolo ebraico durante il periodo di schiavitù babilonese, non meno quella degli abitanti del nostro Paese. I poeti giudaici e quelli italiani avevano appeso le cetre ai salici per voto.
I versi di Quasimodo sono, al contempo, un richiamo al passato, una rappresentazione della cruda realtà a lui coeva, una profezia futura, ovvero, l’attuale assenza di pace tra le genti.
Quasimodo esprime in versi, con stile evocativo e colloquiale, la sua sofferente partecipazione alla carneficina che vede coinvolti i suoi connazionali nel periodo del secondo conflitto mondiale.

Il poeta si domanda: “E come potevamo noi cantare…”, che parafrasato diventa: “con che animo potevamo comporre poesie?”. Nel periodo infelice della guerra, i poeti hanno preferito il silenzio, quali parole avrebbero potuto utilizzare, semmai ce ne fossero state, per descrivere lo strazio dei corpi martoriati e abbandonati sulla nuda terra, o consolare il dolore disperato di una madre per la perdita del figlio… Ecco, allora, che i poeti partecipano a quello stato di universale disperazione appendendo, per voto, le loro cetre, ovvero, le loro penne, alle fronde dei salici. Sono consapevoli del limite della parola dinanzi alla sofferenza e alla immane sciagura che ha colpito il popolo italiano e il mondo intero.

Non solo, essi si fanno promotori di un genere di poesia che velatamente accusa tutti quegli intellettuali che, durante il periodo fascista, hanno scelto di assoggettarsi al regime.

Leggo le opere degli ermetici in generale, e di Salvatore Quasimodo in particolare, per la loro perenne attualità, per gli insegnamenti che ne ricavo, per il profondo senso di umanità che posso trarne, ed è per questo, a mio parere, che ha ancora un senso studiarle.

Nel mondo attuale, dove lo schiamazzo e l’apparire hanno preso il sopravvento sul silenzio e, ahimè, anche nella situazione di dolore e morte, sarebbe un toccasana per l’anima appendere qualche volta le nostre cetre, alias smartphone, tablet e simili, alle fronde dei salici. Ispirarsi a quel silenzio lirico come forma di rispetto senza parole adottato dal poeta dinanzi alle barbarie cagionate dalla guerra.

 

 

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