Di Raffaele Romano*
Da modesto cinefilo quale sono sempre stato fin da bambino per via del lavoro di mio padre ho avuto una particolare affezione per Sergio Leone sin da quando prelevò uno sconosciuto Clint Eastwood e ne fece l’eroe del “western italiano” e, badate bene non all’italiana o peggio ancora degli spaghetti western come, molto offensivamente, gli USA temendo di essere attaccati sul loro stesso terreno culturale ed economico fecero.
Mi sono sentito rammaricato dalla mancata visibilità allo splendido convegno del 16 marzo scorso organizzato dalla IULM, l’università privata di Milano, dal titolo del suo film cult col sottotitolo: “Il grande Sogno di Sergio Leone”.
In una lunga trattazione densa di spunti e ricordi si sono avvicendati lo storico del cinema e preside della IULM Gianni Canova, la figlia del maestro Sergio: Raffaella Leone, lo scrittore Piero Negri Ferrini e soprattutto Scott Schutzman che interpretò la parte del Noodles ragazzo, ma il mancato successo americano di “C’era una volta in America” non gli consentì di continuare a fare l’attore. Il film fu considerato troppo difficile e duro per il pubblico americano, venne tagliato nel montaggio a due ore e mezza di durata mentre la versione “extended” dura ben quattro ore e quindici minuti e la storia venne, una volta per tutte, rimontata nel giusto ordine cronologico. Questo accadde in quanto la Warner Bros l’aveva letteralmente fatto a pezzi perché considerato troppo lungo e molto complicato.
A modo loro lo rimontarono, espropriando il regista del suo capolavoro in uno dei più pazzeschi suicidi artistici e commerciali di tutto il cinema moderno. Scott Schutzman, in collegamento da remoto, ha ribadito una sua antica convinzione: Sergio Leone lo scelse per i suoi occhi in quelle belle inquadrature dove lui spia la sua adolescenziale passione che si allena a ballare sulle note della canzone “Amapola” di José María Lacalle García, la bellissima Jennifer Connelly nei panni di Deborah.
Gianni Canova ha aperto i lavori definendo il film di Leone un’opera mondo cioè una di quelle opere che esprimono l’epica nella modernità allo stesso tempo complesse, infinite, digressive, allegoriche e aperte. Ricordando che noi italiani non possediamo l’epos che narra le gesta, storiche o leggendarie, di un eroe o di un popolo, mediante le quali si conserva e si tramanda la memoria e l’identità di una civiltà o di una classe politica. E Sergio le cercò in America.
La figlia Raffaella ha voluto sottolineare ed evidenziare che il padre tenne in incubazione il progetto del film per ben 10 anni e più di un anno di riprese. Ha inoltre spogliato il volto apparentemente burbero del padre che, quando era sul set, perdeva anche la pigrizia che lo contraddistingueva diventando addirittura molto dinamico e fortemente felice. Il girato totale superò le sei ore e la lotta coi produttori divenne feroce in quanto il film per il pubblico americano fu ridotto ad un terzo, poco più di due ore.
Poi è intervenuto Piero Negri Scaglione autore di “Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l’avventura di «C’era una volta in America»” nel 2021 per Einaudi con due frasi, la prima di Leone: «Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è cosí e di sicuro lo penso davvero, ma quel che voglio precisamente dire è che “C’era una volta in America” sono io» e la seconda di Robert De Niro: «Non ho mai pensato a Noodles come vincente o come perdente. Oggi usiamo spesso, troppo spesso, questi termini. Il film è tutta un’altra cosa, è un sogno. Oppure no? È questo il punto. E io mi sono buttato, ho seguito il disegno di Sergio».
Dal momento in cui fu pensato per la prima volta a quello in cui fu presentato a Cannes passarono ben 18 anni. Ma, ricorda Scaglione, dopo mezz’ora di proiezione, la magia è svelata: altro che gangster movie, C’era una volta in America è un’opera-mondo, un’epica moderna, o postmoderna, l’unica possibile.
«Nasco con il neorealismo, – diceva Sergio Leone, – ma ho sempre pensato che il cinema è avventura, mito, e che l’avventura e il mito possono raccontare i piccoli fantasmi che ognuno di noi ha dentro» e di piccoli fantasmi in C’era una volta in America ce ne sono tanti. Ha completato il suo intervento ricordando due magnifici episodi il primo riguarda una sua intervista a Quentin Jerome Tarantino che, per 14 minuti in 20 minuti complessivi di un’intervista per Pulp Fiction, gli parlò solo di “C’era una volta in America” e quella con Martin Charles Scorsese in cui gli definì il film di Leone un grande contenitore di moltitudini. Dall’archivio di Robert De Niro è emerso un frammento di Krzysztof Pius Zanussi, regista polacco e presidente al festival di Cannes, un’espressione immortale per il capolavoro di Leone dopo la sua proiezione: “Messieurs, le cinema est fini ce soir!”
Hanno concluso il convegno Alessandro De Rosa, musicista e collaboratore del maestro Ennio Morricone, che ha deliziato la platea commentando e facendo ascoltare vari pezzi della colonna sonora con tutte le sue vibrazioni ed emozioni.
Un grande intervento l’ha tenuto, infine, lo sceneggiatore Franco Ferrini che, nel 1984, ebbe la grande occasione quando Sergio Leone lo fece assumere come cosceneggiatore del suo capolavoro C’era una volta in America. Ferrini ha ricordato l’esatto e perfetto mix fra altri sceneggiatori americani e lui.
L’unico grande rammarico: l’assenza totale dei media, peccato!