di Aldo A. Mola*

La bizzarra vicenda del cosiddetto redditometro lascia profondamente perplessi per motivi di metodo e, ancor più, di merito. Sotto il primo profilo negli anni ne sono emerse le aporie, ai confini dell’incostituzionalità.

È incongrua la pretesa di rapportare il reddito accertabile al tenore di vita valutato con induzioni “sintetiche”, cioè interferenze nella sfera privata del cittadino, libero di condursi da sobrio, parco o spendaccione sino alla dissipazione secondo scelte personali, non dipendenti dal calendario civile ma da quello umorale.

Senza scomodare le biografie dei personaggi storici, prima di incasellare la condotta delle persone in gabbie statistiche, i “politici professionali” (come dovrebbero essere i “conduttori di popolo”, “demagoghi”) e i loro consulenti (scelti per competenza o perché succubi del “capo”?) dovrebbero riflettere su sé medesimi.

E così confrontare la loro quotidianità odierna con quella del 2018, anno del decreto legge che fissò il termine dal quale investigare la sincerità del cittadino nei confronti dell’Agenzia delle Entrate ovvero, esagerando, dello Stato. Come più volte ripetuto, la retroattività delle norme è inaccettabile.

Fu introdotta una sola volta in passato, col famigerato decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159 che introdusse il reato “politico” di favoreggiamento del regime e venne deplorato da ben diciotto giuristi di sicura fede democratica quali Arturo Carlo Jemolo, Massimo Severo Giannini, Guido Astuti ed Edoardo Ruffini Avondo. Senza bisogno di innovazioni normative, il fisco già dispone di tutti gli strumenti per “sapere”, quando appena appena lo voglia.

Che poi, nei fatti, esso spesso si distragga non dipende dunque dalle norme ma da chi “le applica per i nemici e le interpreta per gli amici”, come appunto avviene in un sistema in forza del quale l’80% delle entrate fiscali proviene dal prelievo diretto dai redditi certificati dei dipendenti pubblici e privati.

La vicenda del redditometro risulta sconcertante proprio per i suoi protagonisti: il viceministro Maurizio Di Leo e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Come noto, il primo il 7 maggio ha formulato un decreto ministeriale, pubblicato il 20 seguente nella “Gazzetta Ufficiale”.

Una volta stampato, esso è pienamente efficace “a termini di legge”, come esplicitamente indicato nel testo. È bizzarro che un intervento così complesso e politicamente sensibile non sia stata portato in Consiglio dei ministri e (a quanto pare) non abbia avuto l’esplicito avallo del “capo dell’esecutivo”, per difetto di comunicazione o di cognizione.

Sul “metodo” seguito dal governo che cosa dice la Costituzione? Giova scorrerla rapidamente. L’articolo 92 recita: “Il Governo della Repubblica è composto del presidente del Consiglio e dei ministri”. L’articolo 95 precisa: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.

I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”: senza ripensamenti né “sospensioni”, una volta che hanno deliberato.

I due articoli ricalcano quasi completamente il Progetto di costituzione elaborato dalla Commissione dei Settantacinque presieduta dal “fratello” Meuccio Ruini e presentato alla presidenza dell’Assemblea il 31 gennaio 1947. L’unica differenza, di forma e di sostanza, è nell’articolo 92. Nella “bozza” esso recitava: “Il Governo della Repubblica è composto del Primo ministro, presidente del Consiglio, e dei Ministri”. I costituenti discussero a lungo e anche animatamente entrambi gli articoli. Le obiezioni si concentrarono proprio sulla “figura” del “primo ministro” e del “presidente del Consiglio”.

Dallo Statuto…

I motivi della diffidenza dei Costituenti nei confronti del presidente del Consiglio arrivavano dalla devastante esperienza del “governo Mussolini”. Sin dall’arrivo a Roma per formare il governo, il 30 ottobre 1922, il “duce del fascismo” si era proposto quale incarnazione del “popolo d’Italia” (era la testata del periodico da lui fondato con contributi tripuntini d’Oltralpe). Negli anni seguenti si era più volte contrapposto al capo dello Stato, Vittorio Emanuele III. La freddezza dei Costituenti nei riguardi del “primo ministro/presidente del Consiglio” però era molto più antica. Lo Statuto Albertino del 4 marzo 1848 non ne fece alcun cenno.

L’articolo 65 dettò: “Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. Il governo era “del Re”: emanazione della Corona. I suoi componenti potevano intervenire in una Camera solo se ne erano membri.

All’indomani della promulgazione dello Statuto, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II affidarono la guida del governo anche persone del tutto estranee alla “politica”. All’insediamento, il governo non chiedeva la fiducia alle Camere. Anche Massimo d’Azeglio si mosse all’insegna “né più né meno che lo Statuto”.

Nella premessa ai Verbali dei consigli dei ministri presieduti da Camillo Cavour, lo storico Aldo G. Ricci fa notare che il Gran Conte faticò molto a far emergere la figura del presidente in un consesso alle cui sedute Vittorio Emanuele II talvolta presenziò, proprio per ricordare che l’unica fiducia di cui esso aveva bisogno era la sua. Insofferente di “alter ego”, nel silenzio dello Statuto al Re andava bene l’equiparazione “di fatto” tra il “suo governo” e la sua volontà.

Perciò qualunque membro del governo era titolato a presiederlo. L’articolo 11 del Regolamento sulle “varie attribuzioni dei vari dipartimenti ministeriali”, annesso al regio decreto 21 dicembre 1850, indicò le “materie” sulle quali il governo era sempre chiamato a deliberare: ordine pubblico e alta amministrazione, progetti di legge, trattati e decreti organici, petizioni, conflitti tra dicasteri, destinazione di arcivescovi e vescovi e di alte cariche dello Stato, conferimento di decorazioni non concesse “motu proprio” dal sovrano, dimissioni e giubilazioni dei funzionari. Premeva insistere sulla collegialità dell’organo e abbozzare la struttura dei ministeri. Subentrato a Massimo Tapparelli d’Azeglio nella guida del governo, Cavour mirò a formare una maggioranza parlamentare a sostegno dell’esecutivo per liberarlo dalla volizione del Re e farne il soggetto della “politica”, inclusa quella estera e, di conseguenza, militare.

Dopo varie crisi (generate soprattutto dal clero), Cavour giocò la partita decisiva quando volle il consenso della Camera alla onerosa e rischiosa partecipazione del regno di Sardegna all’alleanza anglo-franco-turca contro l’impero di Russia, osteggiata sia dai “democratici” sia dai reazionari.

… a quarant’anni di progetti al vento

La necessità di configurare il governo e le prerogative del suo presidente s’impose dopo la terza guerra per l’indipendenza (1866), segnata da scacchi militari e dall’acquisizione del Veneto euganeo “a tavolino”. Con il decreto 11 marzo 1867, n. 3629 Bettino Ricasoli volle estollere il presidente del Consiglio sopra il governo, ormai formato dalla maggior parte delle correnti della Camera: non solo cavouriani e seguaci di Giacomo Rattazzi ma anche il “Terzo partito” (Angelo Bargoni, Antonio Mordini) ed esponenti della sinistra democratica, quali Michele Coppino e Agostino Depretis, tutti massoni, chiamati a far quadrato a sostegno della Corona, scomunicata dal papa, contro l’assedio dei repubblicani intransigenti e mentre si profilava il conflitto tra la Francia di Napoleone III e la Prussia di Bismarck. In stretta intesa con il Re, il presidente del Consiglio doveva valersi del ventaglio più ampio possibile di parlamentari, anziché di una sola fazione.

L’articolo 5 del decreto stabilì che il presidente del Consiglio “rappresenta il Gabinetto, mantiene l’uniformità dell’indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e cura l’adempimento degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Ogni ministro doveva comunicare al presidente tutti i decreti da portare alla firma del Re. Sanzionato dal sovrano, il “decreto Ricasoli” fu bersaglio di un fuoco di fila di polemiche, chiuse con le sue dimissioni. Dieci anni dopo sia Agostino Depretis, primo esponente della Sinistra storica asceso al potere, sia Umberto I celebrarono il primato del Parlamento sul governo.

Il 1°aprile 1884, però, lo stesso Depretis propose la costituzione di un ministero della Presidenza. Invano. Ci riprovò due anni dopo. Il progetto fu discusso a fondo dal quarantaquattrenne Giovanni Giolitti, esponente di punta della Sinistra subalpina, e da Giuseppe Zanardelli, capofila della sinistra democratica. Il progetto naufragò proprio perché – osservò Giolitti – bisognava impedire che il presidente divenisse un “despota”. Altri, infatti, preferivano il “metodo Crispi”, il presidente secondo il quale a governare l’Italia bastavano lui solo e il Re. Era un abbaglio mentre nascevano i partiti.

Nel 1892 il ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr esortò Giolitti, per conto del Re, a esaminare sempre personalmente tutti i decreti approntati dai ministri “prima di darvi corso”. Era impensabile che un presidente del Consiglio sostenesse di voler “vedere meglio” i decreti dei colleghi dopo che essi erano stati avviati alla firma sovrana o addirittura dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta del Regno d’Italia. Quella non era una “Italietta”, ma uno Stato serio.

Zanardelli e Giolitti: la coppia liberal-democratica

Proprio Zanardelli e Giolitti furono gli artefici della svolta d’inizio Novecento: il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466, “sugli oggetti da sottoporsi al consiglio dei ministri”. Nel titolo esso riguardò il governo, nelle norme investì il presidente. Questi, enunciò l’articolo 6, “rappresenta il gabinetto, mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo di tutti i ministeri e cura l’adempimento degli impegni presi dal Governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni col Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”: copiò pari pari il progetto di Ricasoli, aggiornato e ribadito da Depretis.

L’articolo 8 però aggiunse: “Ciascun ministro comunica al presidente del Consiglio la nota, con le analoghe specificazioni, di tutti i decreti che intende portare alla firma reale”. Il presidente poteva “sospendere le proposte, richiedere schiarimenti e deferirne l’esame al consiglio dei ministri”, ma, ovviamente, prima della loro pubblicazione. Non solo. Il regio decreto impose: “Il ministro degli Affari Esteri conferisce col presidente del consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnino la politica del Governo nei suoi rapporti coi governi esteri”. Il presidente era segretario dell’ordine supremo della SS. Annunziata” (che conferiva il rango di “cugino del re”) e notaio della Corona. Il regio decreto configurò la vittoria del regime parlamentare, ma non intaccò le prerogative del re, capo delle forze armate. È stato osservato che esso fu la “Magna Charta” del giolittismo: un capolavoro di equilibrio, capace di dare l’impressione di una riforma profonda senza modificare la bilancia dei poteri supremi, in specie nella politica estera che, nelle sue istanze ultime, rimase riservato dominio del Re, come si vide nel 1914-1915, quando l’Italia slittò dalla Triplice Alleanza all’“arrangement” con la Triplice Intesa senza che ne fossero informati né i ministri né le Camere.

Va aggiunto che il presidente del Consiglio aveva alle dipendenze una pattuglia esigua di funzionari e di impiegati “di concetto” e “d’ordine”. A parte Zanardelli, che non fu titolare di alcun ministero, quasi tutti i presidenti furono anche ministri dell’Interno e da lì traevano le risorse materiali e umane per governare con la massima efficienza e il minimo dispendio di risorse.

La Grande Guerra impose il rafforzamento del presidente del Consiglio. Col regio decreto 15 dicembre 1917, n. 1963 quest’ultimo divenne presidente del Comitato di guerra istituito per deliberare sulle questioni concernenti i rapporti tra governo civile e comandi superiori dell’Esercito e della Marina. L’istituzione del vice-presidente del Consiglio (regio decreto 18 gennaio 1919, n. 38) rafforzò l’istituto del presidente garantendo la continuità dell’esercizio dei poteri in caso di sua assenza: obbligata dalla partecipazione di Vittorio Emanuele Orlando, presidente in carica, al Congresso della pace in corso a Versailles. Appena tornato a capo del governo, col regio decreto 23 maggio 1920, n. 726, Giolitti revocò il decreto e cancellò la figura del vice-presidente: orpello superfluo per chi aveva l’orgoglio di fare tutto da solo, o quasi.

Dal “presidente” a Mussolini, “Capo del governo”

Va ricordato che durante la Grande Guerra, benché spesso ignorata o aggirata dal governo, la Camera dei deputati costrinse alle dimissioni ben due presidenti del consiglio, Antonio Salandra e Paolo Boselli, proprio perché il Paese si trovò in crescente emergenza e il governo ebbe bisogno del sostegno di un ventaglio sempre più ampio di consensi. L’unico modo per ottenerlo (lo si vide con Vittorio Emanuele Orlando) fu l’ammorbidimento delle sanzioni nei confronti della sinistra, come ripetutamente e a ragion veduta, deplorò il Comandante Supremo Luigi Cadorna, rimosso dopo aver orchestrato con successo la ritirata dall’Isonzo al Piave tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917, come documenta l’Inchiesta su Caporetto

Quando nel 1946-1947 i Costituenti affrontarono il nodo del presidente del Consiglio nella commissione dei Settantacinque e in Aula non pensavano a Cavour, Ricasoli, Depretis, Zanardelli… Avevano invece ben presente la legge 24 dicembre 1925, n. 2263 su “Attribuzioni e prerogative del capo del governo” voluta da Benito Mussolini. Il testo, molto enfatico, recita: “Il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo del suo governo. Il governo del Re è costituito dal Primo ministro segretario di Stato e dai ministri segretari di Stato. Il primo ministro è capo del governo […] responsabile verso il Re dell’indirizzo generale politico del governo”.

Nominati e revocati dal Re su proposta del capo del governo (esattamente come nel regime repubblicano odierno), i ministri erano responsabili “verso il Re e verso il Capo del governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro ministeri”. Nelle cerimonie ufficiali il Capo precedeva i cavalieri della SS. Annunziata, designava il proprio sostituto in caso di forzata assenza ed era tutelato dalla condanna severa di chi attentasse alla sua vita o lo offendesse “con parole o atti”.

Su quella base ogni sospiro divenne capo d’accusa. Anche l’ultimo degli ubriachi di villaggi sperduti rischiò condanne a pene severissime per aver inveito contro il “duce”, anche se in accertato “stato di alterazione”.

La legge fu approvata quasi un anno dopo il discorso del 3 gennaio 1925 con il quale Mussolini rivendicò la paternità della “rivoluzione” fascista, sfidò l’opposizione a incriminarlo e respinse ogni addebito nella morte di Giacomo Matteotti. Era il clima intossicato dall’attentato alla vita del “duce”, lasciato ordire sotto il controllo della polizia dall’ingenuo Tito Zaniboni: pretesto per arrestare, quale ispiratore e addirittura finanziatore del “colpo”, il generale Luigi Capello, condannato a trent’anni di reclusione, tre dei quali di carcere duro.

Una pena esorbitante per una colpevolezza mai documentata. Servì da pietra tombale sulla massoneria, di cui il generale era alto e pugnace dignitario.

Però, al di là di alcune bellurie, la “legge Mussolini” lasciò inalterato il regime statutario, incardinato sul Re, perché comunque era sempre lui a nominare e a revocare il presidente del Consiglio. Come avvenne il 25 luglio 1943. Per altri vent’anni il duce sperò di avere una “investitura popolare” che gli consentisse di confrontarsi con il sovrano dall’alto in basso o almeno da pari a pari. Non voleva solo la “diarchia”, mai effettivamente esistita, bensì la subordinazione della Corona. Il Re a suo giudizio rappresentava un mondo arcaico, appassito, in estinzione.

Il “capo del governo” era invece investito dall’afflato del “Popolo d’Italia” tramite il voto. Fu quanto avvenne il 24 marzo 1929, quando l’unica lista ammessa alle urne ottenne un successo straripante. Anche perché, nel frattempo, la libertà di stampa e di associazione era stata soppressa, i partiti d’opposizione vietati ed introdotta la pena di morte per gli attentatori alle alte cariche, inclusi i principi della Chiesa.

Evirato il Parlamento, il capo del governo ottenne consenso di massa e vasto sèguito di “colti” (consenzienti per conservare cattedre e riconoscimenti, al riparo dello “jus murmurandi” che consentiva di irridere Italo Balbo come Sciupone l’Africano). Ritenne di portare il Paese dove meglio credesse. Però si trovò sempre a dover rendere conto a chi lo aveva nominato (non solo per Statuto ma anche per la legge da lui stesso voluta) e aveva diritto di revocarlo.

Quei precedenti, quelle dispute, incombono oggi e dureranno a lungo sulla “vexata quaestio” dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri. A commento della legge Zanardelli del 14 novembre 1901 un quotidiano conservatore saggiamente osservò: “Sono gli uomini e non i decreti che fanno andare il mondo”. Zanardelli e Giolitti puntarono a una liberal-democrazia capace di accompagnare crescita economica e progresso civile. Zanardelli si spinse oltre: propose l’introduzione del divorzio, come (“per fatto personale”) aveva chiesto Massimo d’Azeglio mezzo secolo prima. Nel discorso della Corona il Re si disse del tutto d’accordo. Ma “il mondo” disse no. In poche settimane i parroci raccolsero tre milioni di firme (tutte autentiche?) contro la proposta, subito affossata. Ma forse, d’altronde, quella non era la “riforma” più urgente. Con arguzia Giolitti osservò che a opporsi alla possibilità di divorziare erano soprattutto persone non sposate, a cominciare dal papa.

Accadde all’epoca – ma non solo allora – che tanti nodi si presentarono alla Storia del giovanissimo Stato d’Italia: tutti insieme, tutti aggrovigliati e insolubili. Unica àncora di salvezza era e rimase lo Statuto albertino, come a Giolitti nel 1903 scrisse il radicale milanese Carlo Romussi. Esattamente come lo è la Costituzione nell’Italia odierna, mentre le guerre incombenti e lo spaventoso debito pubblico potrebbero esigere la fomazione di governi di unità nazionale fondati sull’ampio consenso dei cittadini, anziché sulla diserzione dalle urne.

Aldo A. Mola*Nato a Cuneo nel 1943, Aldo Alessandro Mola è stato preside in alcuni licei dal 1977 al 1998. Nel 1980 riceve la medaglia d’oro di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. Docente di storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, è, dal 1986 direttore del Centro per la storia della Massoneria, e, dal 1992, contitolare della cattedra “Pierre-Théodore Verhaegen” dell’Université libre de Bruxelles.

È direttore del Centro Europeo Giovanni Giolitti, presidente del comitato cuneese dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, dell’Associazione di studi sul saluzzese e del Centro studi e ricerche “Urbano Rattazzi” di Alessandria. Interessante anche il suo ultimo saggio, Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922, da cui si scopre che la «marcia su Roma» dei fascisti in realtà non sarebbe mai avvenuta.

Editorialista del quotidiano Il Giornale del Piemonte e coordinatore editoriale de Il Parlamento italiano 1861-1992, Mola ha organizzato numerosi convegni di studi, specialmente per il Ministero della Difesa (Garibaldi, generale della libertà nel 1982, e la serie Forze Armate e Guerra di Liberazione). Direttore di collane di storia per vari editori, è, dal 1967, autore di saggi. Nel 2004 riceve il Premio alla Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Monarchico, è presidente di quella Consulta dei Senatori del Regno che sostiene Amedeo di Savoia-Aosta nella disputa sulla successione, e da anni sollecita il rientro in Italia delle salme dei sovrani Vittorio Emanuele III, che è tumulata ad Alessandria d’Egitto nella Cattedrale di Santa Caterina, della moglie Elena, sepolta a Montpellier, e di Umberto II e Maria José, seppelliti ad Altacomba, in Alta Savoia.

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