Quattordici attivisti pro-democrazia condannati a Hong Kong per ‘sovversione’. Ma Pechino rifiuta le critiche: “Basta interferenze”.

di Alessia De Luca*

La condanna per “cospirazione sovversiva” comminata dal tribunale di Hong Kong a 14 attivisti pro-democrazia, che ora rischiano da tre anni di carcere all’ergastolo, segna la parola ‘fine’ sulle aspirazioni democratiche e liberali della città. Il verdetto riguarda il principale caso giudiziario nella repressione del dissenso da quando, quattro anni fa, Pechino varò la prima legge sulla sicurezza nazionale. Nel corso dell’anno precedente, Hong Kong – regione amministrativa speciale cinese dal 1997, dopo un secolo e mezzo di controllo britannico – era stata attraversata da enormi manifestazioni di piazza che invocavano una maggiore autonomia da Pechino nel nome della democrazia. “È la fine di Hong Kong come il mondo l’ha conosciuta finora”, disse Joshua Wong, uno degli attivisti simbolo del movimento di protesta quando la legge entrò in vigore. Era il 30 giugno 2020: di fatto la legge prevedeva un controllo totale del Partito comunista cinese sul “Porto profumato” e consentiva all’intelligence cinese di operare indisturbata sul territorio. Da allora, centinaia di attivisti sono stati arrestati o hanno riparato all’estero, i media indipendenti sono stati chiusi e il principio ‘un paese, due sistemi’ – che dal 1997 in poi aveva garantito agli abitanti della ex colonia britannica libertà civili e di espressione più ampie rispetto al resto della Cina – è stato progressivamente eroso.

Il gruppo dei 47?

Le autorità di Pechino e Hong Kong sostengono che la legge sulla sicurezza nazionale è necessaria per mantenere la stabilità. Ci sono quattro reati principali che possono essere puniti con la pena massima dell’ergastolo: secessione, per chi sostiene la rottura con la Cina; sovversione per chi tenta di indebolire l’autorità del governo centrale; terrorismo per chi fa ricorso all’uso della violenza o dell’intimidazione; collusione con forze straniere o esterne. In totale, gli imputati coinvolti nel procedimento per sovversione sono 47. Oltre ai 14 condannati ieri altri due sono stati assolti, anche se il Dipartimento di Giustizia ha presentato ricorso e rimarranno in libertà vigilata in attesa della decisione sul ricorso. Altri 31 si erano dichiarati colpevoli in precedenza, sperando di ottenere sentenze più miti, e le pene nei loro confronti saranno rese note in un secondo momento. Tutti e 47 sono accusati di aver tentato di rovesciare il governo di Hong Kong organizzando elezioni primarie non riconosciute. Tra loro ci sono figure di spicco del movimento di opposizione, ex parlamentari, giornalisti e accademici. Provengono da più generazioni e da un ampio spettro politico: dai democratici moderati a coloro che sostengono l’autodeterminazione di Hong Kong. Come tutti i casi di sicurezza nazionale finora, il processo si è svolto senza giuria, presieduto da un gruppo di tre giudici dell’Alta Corte designati dal capo del consiglio cittadino, John Lee.

Una ‘piccola Cina’?

ll caso dei 47 è nato da un’elezione primaria non ufficiale tenuta dall’opposizione pro-democrazia nel luglio 2020 per la legislatura della città. L’obiettivo era restringere le migliori possibilità per i candidati e provare a ottenere la maggioranza nel Consiglio legislativo di Hong Kong. Ma le autorità avevano reagito affermando che le primarie fossero un “complotto feroce” inteso a “paralizzare il governo e minare il potere statale”. Le elezioni che gli imputati speravano di vincere sono poi state rinviate al 2021 a causa delle preoccupazioni per la salute legate al Covid, ma durante il rinvio, le autorità di Pechino e Hong Kong avevano riscritto le regole elettorali, mettendo in atto un sistema di screening più rigido per eliminare i candidati ritenuti “non patriottici”. Nel corso della sua lunga parabola, la vicenda offre uno spaccato su come la legge sulla sicurezza nazionale abbia riscritto il panorama politico della città, con un’opposizione pro-democrazia, un tempo consentita, ora decimata e il dissenso quasi cancellato. “La legge sulla sicurezza nazionale ha creato un ambiente di paura e autocensura”, afferma Simon Cheng, un attivista pro-democrazia in esilio. “Le voci un tempo importanti che difendevano la democrazia e i diritti umani vengono messe a tacere, lasciando un vuoto dove un tempo c’erano un forte dibattito pubblico e un impegno civico”.

Nuova era di autoritarismo?

Due mesi fa il Consiglio legislativo di Hong Kong ha approvato all’unanimità una nuova legge sulla sicurezza nazionale nota come “Articolo 23” che integra quella imposta da Pechino nel 2020. La normativa prevede cinque categorie di reato in più rispetto a quella del 2020: tradimento; insurrezione; spionaggio; furto di segreti di stato; sabotaggio. In base alla legge, sei persone, tra cui l’attivista Chow Hang-tung, sono state arrestate. Secondo le autorità, avrebbero utilizzato i social network per pubblicare “materiale sedizioso” in vista di “una ricorrenza delicata”. Il riferimento è all’anniversario del massacro di Piazza Tienanmen, che fino al 2019 veniva celebrato a Hong Kong ogni 4 giugno con una veglia in ricordo delle vittime. Le celebrazioni della protesta anticomunista che travolse il cuore della Cina 35 anni fa sono attentamente monitorate dalle autorità cinesi, che negli ultimi anni hanno deciso di censurare e vietare qualsiasi commemorazione dell’evento in città. Le riserve espresse a livello internazionale sull’Articolo 23 hanno innescato la pronta reazione della Cina. Il ministero degli Esteri cinese a Hong Kong ha definito “commenti irresponsabili” e “diffamazione” le prese di posizione da parte del Dipartimento di Stato americano e dell’Unione Europea. La normativa tuttavia è stata ampiamente criticata anche dai gruppi per i diritti umani secondo cui proietta la città in una “nuova era di autoritarismo”.

*Alessia de Luca è una giornalista professionista ed esperta di politica statunitense, responsabile della newsletter quotidiana ISPI Daily Focus e del Focus USA2024. È stata corrispondente dal Medio Oriente e dal Nord Africa dal 2005 al 2009. In precedenza a Skytg24 , ha collaborato anche per la RAI e Radio Vaticana. I suoi lavori sono stati pubblicati tra gli altri da La Stampa, Lifegate, Nigrizia, Avvenire e EastWest.

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