di Raffaello Morelli *
Sostenere la Formazione delle libertà non significa evocarne il principio a parole, bensì praticarne le scelte ed i comportamenti per realizzarle nel governo del convivere. Oltretutto, evocare solo nei principi le libertà può condurre all’esito pratico opposto.
Oggi ne abbiamo esempi tipici. Il dilagare negli Stati Uniti delle forti proteste universitarie contro i bombardamenti di Israele su Gaza. Oppure in Europa l’analoga sollevazione della NATO e di una parte consistente dell’opinione pubblica contro l’agire russo in Ucraina. Ambo i casi hanno molteplici motivi, eppure il fulcro è sul concepire le libertà quale principio emotivo e sul trascurare le condizioni necessarie per utilizzarle quale modello istituzionale collaudato e per farle funzionare domani. Il che contrasta con l’intima natura della libertà complessiva, alla base del suo esser prevalsa nei secoli nonché la garanzia di riprodursi nel futuro.
Occorre rendersene conto ed agire subito per mutare questa inclinazione disattenta all’insieme delle libertà. Perché all’epoca dei vecchi Stati imperniati sul gestire il potere e basta, era quasi fisiologico affidarsi alla libertà emotiva (che, iniziando allora ad introdurre il voto dei cittadini, già di per sé rappresentava un cambiamento chiave nel gestire le istituzioni). Ma ai nostri giorni, quando le istituzioni sono assai più complesse e sono imperniate sulle decisioni dei cittadini, è indispensabile capire che la libertà nel suo complesso non deve limitarsi ad emozionare ma è legata strettamente ai meccanismi indispensabili perché ne usufruiscano i cittadini individui conviventi al momento.
Di tali meccanismi sono sì parte rilevante i diritti civili individuali. Ma nei due esempi citati questi diritti sono trattati come se integrassero tutti i meccanismi delle libertà, costituendo essi soli l’intera libertà nel suo insieme. Non può essere così in una libera convivenza. I diritti legali individuali sono gli stessi per ciascun individuo ma gli individui sono tutti diversi e miliardi. Dunque i diritti attengono ai rapporti nel convivere, non possono mai trasformarsi in qualcosa di impositivo. Quei rapporti richiedono che esistano condizioni generali scelte via via che focalizzano quali siano i diritti. Poi, attraverso il rispetto delle condizioni generali, si rende possibile che si manifestino i diritti individuali dei cittadini. Perciò, occuparsi solo dei diritti non integra la libertà di convivere. Salta all’occhio che non si possono trattare i diritti se prima non si organizza l’istituzione in termini di libertà.
E’ quello che non si fa nei campus universitari USA nonché nella sollevazione della NATO e della parte di opinione pubblica in Europa. Si prescinde dalla realtà. Troppi non considerano che la fonte del terrore in Medio Oriente si annida nel far contare il Corano più delle leggi civili, più dell’esistenza di Israele; si annida nel massacro di Hamas del 7 ottobre, addirittura nel lanciare un semestre dopo i razzi di Hamas con il fine di sbarrare il valico di ingresso a Gaza degli aiuti per i palestinesi ed incolpare della mancanza di aiuti gli attacchi israeliani. Troppi non rilevano che gli Stati arabi moderati vietano le manifestazioni pro palestina, pur non apprezzando il governo Natanyahu. Oppure troppi sono orgogliosi che Macron e Cameron accennino all’intervento nucleare e delle truppe contro l’autocrazia russa e dopo si scandalizzano perché Putin risponde con esercitazioni nucleari tattiche al confine.
In ambedue i casi, si dice di voler difendere i diritti individuali, però non si tiene conto della diversità delle culture e degli interessi. Di fatto si adotta il concetto di libertà imperiale invece di quello, coerente e vincente, di libertà di scambio. In sostanza, si vorrebbero imporre i diritti individuali, negando diversità, libertà di scambio e funzione del conflitto secondo le regole. Un conflitto che è essenziale quando si focalizza sulla validità dei progetti e delle idee, senza prescinderne neppure nel ricercare il consenso.
Simili incoerenze hanno svariata origine, però hanno motivi catalizzatori. Senza dubbio c’è l’eco del sinistrismo ideologico antioccidentale, sommato al libertarismo allergico allo Stato fautore della responsabilità dei suoi cittadini nelle norme e non incline al farli sognare. Una miscela ideale per agevolare l’egoismo di un certo giovanilismo, attratto dall’ossequio alle mode correnti piuttosto che dallo sforzo di conoscere il mondo, circoscrivendo i sogni. Soprattutto, tuttavia, è decisivo l’attivismo di chi, disponendo di enormi mezzi finanziari, può condurre con facilità le proprie battaglie, di convinzione o di interessi, e non si applica ad irrobustire la libertà istituzionale.
Simili soggetti possono fare forti danni anche senza volerlo. Esemplare è il caso della Fondazione Open Society, che, con la rete di sue fondazioni, è attiva negli USA, in Europa, in Medio Oriente (e negli altri continenti) a sostegno senza tregua del solo principio dei diritti individuali.
Negli USA è una grande finanziatrice della protesta nelle università. In Europa, in specie in Ucraina tramite la International Renaissance Foundation (IRF), Open Society sostiene di essere da un trentennio in prima linea. Per farlo, specie nell’ultimo decennio, ha fornito aiuti per oltre 230 milioni di dollari, in particolare dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022. I risultati sono però assai deludenti. Con l’impegno esclusivo sui diritti senza quello complessivo sulla libertà, l’IRF non ha evitato che l’Ucraina sia oggi un paese di corruzione endemica ed ha chiusi gli occhi sulle manovre decennali della NATO per impedire il rispetto degli accordi 2016 di Minsk (l’autonomia di Donbass e del Lugansk da inserire nella Costituzione ucraina) da cui l’invasione dell’autocrazia. Sempre nella logica di portare il tema di far crescere la libertà dal livello istituzionale a quello dei diritti individuali, Open Society è impegnata a finanziare gruppi di opposizione a Natanyahu e quelli pro-palestinesi, in pratica impegni mostratisi inutili per arrivare ai due stati e per far accettare dell’esistenza di Israele.
Nella sostanza in Occidente serpeggia un male. Il contrasto pericoloso tra il sistema di convivenza che vi è maturato – la libertà quale meccanismo istituzionale mosso dall’iniziativa dei singoli e dal conseguente cambiamento continuo – e la convinzione crescente a livello psicologico che la primazia occidentale sugli altri avrebbe un destino di certezza immutabile. Purtroppo, senza evolversi, la libertà complessiva si contraddice, non respira e può lasciar spazio perfino alle autocrazie. Esse continuano a rifiutare di adottare la libertà dei cittadini individui, ma, al suo posto, possono scegliere la strada di una diversificazione economico sociale che, pur dando risultati di gran lunga inferiori, è in grado di soddisfare le esigenze limitate di una società collettivizzata e non libera. Un esempio è la diversificazione in Cina. Decisa a tavolino da gruppi dirigenti scelti nel segno dell’obbedire conformista al partito unico, eppure capace di mantenere in scacco un Occidente arretrato nell’evolversi, poiché scorda che la libertà si basa sulla diversità ed è solo provvisoria.
In Europa specialmente, il male dell’Occidente assume in altro ambito anche un’altra forma particolare. La pretesa, assai insidiosa nella sua quotidianità, di imporre le etichette su svariati cibi commerciali e con esse uno stile di vita alimentare uguale per ogni cittadino. Ancora un modo che la ricerca scientifica indipendente dai finanziamenti dei grandi gruppi della distribuzione, ha già provato essere un attentato alla salute del consumatore nella sua diversità e all’esperienza della dieta mediterranea maturata nei secoli quale vertice alimentare. Cioè un attentato al sistema libero.
Insomma, l’idea di ridurre gli aspetti molteplici delle libertà ad uno solo, di cercare di rendere la libertà complessiva indipendente dalle condizioni che la costruiscono, è un’idea che non sta in piedi. Non è capace di arrivare a modellare le istituzioni sulla libertà e dunque a rendere i cittadini più liberi. In questa primavera del 2024, pare che la Fondazione Open Society inizi a ritirarsi dall’Europa perché ritiene di non essere gradita. Ma non è certo abbastanza. Per guarire dal suo male, l’Occidente deve rendersi conto che la libertà non è coltivata da campagne finanziarie in suo nome, bensì dall’aggiustarla ogni giorno con l’esperienza di ciascun diverso convivente .
Agire solo sui diritti individuali trascurando le condizioni istituzionali della libertà, rammenta da vicino le parole di Hannah Arendt riguardo le condizioni per la pubblica informazione: ”senza un’informazione basata sui fatti e non manipolata, la libertà diventa una beffa”.
Raffaello Morelli*Per lunghi anni esponente del Partito Liberale Italiano, del quale è stato Vicesegretario nazionale, è stato Consigliere Regionale per la Toscana. Tra i promotori del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e di quello per la riforma Democratica, nonché del referendum per la Riforma ELettorale del 1992. E’ stato vice Presidente del Comitato contro il referendum Renzi del 2016 e componente del Comitato per il SI alla Riduzione dei parlamentari nel 2021.