Ancora una volta la storia è Magistra vitae, se appena appena la si sa leggere
di Aldo A. Mola *
Il 21 luglio 1923 non figura tra le “giornate particolari”. Eppure quel giorno, nell’Aula “sorda e grigia” della Camera dei deputati, venne decisa la storia d’Italia. La “narrazione” privilegia eventi clamorosi. A volte li inventa. È il caso del 28 ottobre 1922, giorno fatidico della “marcia su Roma”, che si ridusse alla sfilata di 25.000 squadristi da Piazza del Popolo alla Stazione Termini, dove sessanta treni li riportarono alle loro terre, stanchi ma non del tutto soddisfatti. Non era il 28 ma il 31 ottobre 1922. Il governo Mussolini era già insediato. Il IV novembre il Re rese omaggio al Milite Ignoto all’Altare della Patria e partì per San Rossore (Pisa). Il Paese era tranquillo.
Mitologie a parte, la Storia, quella vera, quella che “pesa”, procede a passi felpati. Chi potrebbe fermarla o deviarne il corso spesso le lascia il varco e risulta persino assente ingiustificato. Come accadde quel 21 luglio 1923. Quella, sì, una “giornata particolare”.
Per comprendere quanto avvenne e le sue ripercussioni sul ventennio seguente occorre fare un passo all’indietro. Un mese dopo l’insediamento alla presidenza del Consiglio, Benito Mussolini fece trapelare le sue intenzioni tramite un dispaccio diramato dall’“Agenzia Italiana” il 6 dicembre 1922. Ottenuta la fiducia dalle Camere, il governo progettava di sostituire il riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti con un premio di maggioranza alla lista più votata. Mussolini, però, era consapevole di non avere la forza numerica per farlo. Il Partito nazionale fascista (PNF) contava appena 36 deputati su 535. Sommando i nazionalisti (come poi avvenne a metà febbraio 1923, previa dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria) ne sarebbe sorto un gruppo di 50 deputati. Del tutto insufficiente. Il duce tentò allora un’altra via. Se lo avesse proposto alla Camera, il progetto avrebbe suscitato «un dibattito alimentato da interessi particolari ed individuali, mettendo in chiara luce l’impossibilità di una serena e disinteressata discussione parlamentare».
Mussolini sperò allora di imporre la riforma per decreto reale, ma Vittorio Emanuele III, re costituzionale, rifiutò. Dovette quindi presentare un disegno di legge col rischio di rimanere soccombente in Aula. Esso fu approntato da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del consiglio, massone. Ma la sua elaborazione richiese tempo perché, come emerse da una seduta del Gran Consiglio del fascismo il 17 marzo 1923, molti “ras”, come Roberto Farinacci, propendevano per il ritorno ai collegi uninominali, in vigore sino al 1913: più sicuri per essere eletti sulla base del controllo del territorio, ormai militarizzato tramite le “squadre”.
Il 26 aprile il Gran Consiglio approvò a maggioranza un «sistema maggioritario a più vaste circoscrizioni elettorali, secondo cui la lista che otterrà il maggior numero di voti rispetto alle altre sia dichiarata eletta per intero, ed i posti residuali ripartiti proporzionatamente fra le altre liste». Il Gran Consiglio non indicò la soglia che la lista prevalente doveva raggiungere, né la quota di seggi che le sarebbe stata riservata. Meglio tenere le carte coperte per non allarmare partiti e opinione pubblica, del resto assai ristretta perché la stragrande maggioranza degli italiani aveva altre urgenze.
Il 9 giugno Mussolini presentò alla Camera la legge elettorale maggioritaria, “madre di tutte le riforme”. Accantonata la “questione istituzionale” e messa la sordina ai propositi di assalto al Senato, di nomina regia e vitalizio, il duce mirò a ottenere un’investitura diretta dagli elettori. Su quella base avrebbe potuto confrontarsi con il Re da una posizione più forte. Sarebbe stato espressione della “volontà nazionale”, del “Popolo d’Italia”, insegna del quotidiano da lui fondato all’uscita dal partito socialista grazie a un robusto finanziamento da parte del Grande Oriente di Francia, che aveva bisogno di un movimento “socialista” italiano a favore dell’intervento in guerra, osteggiato dal PSI, poi arroccato sull’inconcludente formula “né aderire, né sabotare”. Il 30 ottobre 1922, secondo la leggenda, Mussolini aveva dichiarato al Re che gli portava l’“Italia di Vittorio Veneto”. Ora doveva dimostrare che gli italiani approvavano l’esercizio dei pieni poteri da lui chiesti e concessi dalle Camere per riformare la pubblica amministrazione, negati a Giolitti nel suo quinto e ultimo governo (1920-1921).
La Commissione dei diciotto
Secondo la prassi, la Camera, presieduta dal liberale napoletano Enrico De Nicola, nominò una commissione di diciotto membri per l’esame preliminare del disegno di legge. Ne fecero parte rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, compresi quattro ex presidenti del Consiglio, Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi e l’ottantunenne Giolitti, al quale fu conferita la presidenza. I gruppi fiancheggiatori e di opposizione furono rappresentati ai massimi livelli: De Gasperi e Micheli per il partito popolare, Turati per i socialisti unitari, Lazzari per i massimalisti, Graziadei per i comunisti. I fascisti vi comparvero con un paio di deputati, Paulucci e Terzaghi, supportati dal filofascista e massonofago Paolo Orano. I suoi travagli narrati in “Massoneria e fascismo” (ed. anastatica Forni) da Michele Terzaghi, che il 31 ottobre 1922 aveva rifiutato la nomina a sottosegretario alle Poste (si aspettava di meglio, poi finì al confino di polizia).
Nell’impossibilità di immediato ripristino dei collegi uninominali, Giolitti aveva l’ossessione di spazzare via la “maledetta proporzionale” per assicurare all’Italia un governo stabile perché numericamente forte: una sorta di dittatura parlamentare provvisoria. Ma fino a quando sarebbe durata? Giunto al potere per voto popolare, il “dittatore” si sarebbe rassegnato a deporre il fascio littorio o ne avrebbe estratto la scure? Erano in tanti a domandarselo. Come ricorda Gianpaolo Romanato in “Giacomo Matteotti: un italiano diverso”, ed. Bompiani), in un colloquio con Matteotti (che invano gli propose di iscriversi al PSU) Gaetano Salvemini prospettò i nomi di possibili ministri di un “governo di garanzia”: lui stesso, Giovanni Amendola, Luigi Albertini, don Sturzo, il socialista Bruno Buozzi, il cattolico Filippo Meda e il generale Pietro Badoglio, di cui si diceva che se nel 1922 gli avessero chiesto di sbaragliare gli squadristi “manu militari” lo avrebbe fatto.
Le ipotesi erano tante, a volte fiabesche e sempre più lontane dalla realtà. Inondavano giornali e riviste, letture di nicchia per addetti ai lavori, lontani dalla generalità dei cittadini alle prese con disoccupazione e distanza crescente tra stipendi, salari e costo della vita.
La “legge Acerbo”, come il disegno di legge fu subito detto dal nome del suo proponente, venne discussa a lungo nella “Commissione dei Diciotto”. Mentre i tre esponenti delle sinistre furono sempre per il “no”, il popolare De Gasperi propose di elevare dal 25% al 40% la soglia oltre la quale il partito prevalente avrebbe ottenuto il premio di maggioranza e di ridurre quest’ultimo da due terzi a tre quinti dei seggi. Trattare voleva dire accettare, almeno “in linea di massima”, come Abramo con Dio nel Vecchio Testamento. Fiutata la vittoria per le divergenze e la debolezza delle opposizioni, la maggioranza (fascisti e “liberali”) si irrigidì. Il testo fu mandato in Aula con poche varianti rispetto all’originale.
Un’esigua minoranza divenne maggioranza schiacciante
L’obiettivo della legge era semplice: la minoranza più forte ha diritto di governare da sola
il Paese. A Monte Citorio le opposizioni si mostrarono blande. Per i socialisti parlò Turati, che divagò. I popolari Gronchi e Cingolani, più pragmatici, riproposero l’elevazione della soglia premiale al 40% e il conferimento dei tre quinti dei seggi anziché i due terzi, ma confermarono la collaborazione col governo, sia pure “piena di sottintesi” come osservò ironicamente Mussolini.
Il 21 luglio 1923, per evitare rischi e contraddicendo le dichiarazioni della vigilia, il duce pose la questione di fiducia sull’ordine del giorno presentato dal conte e avvocato Ignazio Larussa, eletto nella circoscrizione Calabria e Basilicata nella lista di Democrazia liberale ma ormai in marcia verso il PNF. A Roma il caldo era opprimente. L’Aula era soffocante. Mentre il 16 precedente, per il voto sulla fiducia sugli articoli, si erano contati 450 presenti, nella seduta decisiva, se ne presentarono appena 346 su 535. Erano chiamati a votare la proposta di Ivanoe Bonomi di elevare la soglia dal 25 al 33%, che fu sconfitta. Sulla legge Acerbo ancora una volta Mussolini chiese pose la questione di fiducia. Il governo rischiava tutto. La votazione era segreta. Il risultato fu inappellabile. Il governo ottenne 223 voti contro 123. Prevalse col favore del 40% dei deputati in carica, una minoranza: nazionalfascisti, liberali di varia osservanza, popolari ormai liberi da don Sturzo. Elenco dei presenti alla mano, risulta che almeno 40 dei 100 deputati del partito popolare, in parte contrari alla legge, furono assenti. Ma ancora più clamorosa risulta l’assenza ingiustificata dei socialisti, sia massimalisti, sia del Partito socialista unitario capitanato da Matteotti.
Turati scrisse sconsolato alla compagna, Anna Kuliscioff, da decenni Ninfa Egeria del socialismo italiano: «Dei nostri ne mancarono 30 o 40, il che significa che siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo». Quel 21 luglio 1923 fu la Camera o, più esattamente, l’“opposizione”, a regalare a Mussolini vent’anni di governo. Da quel giorno la sorte dell’Italia fu segnata. Il partito che avesse avuto un quarto dei voti validi avrebbe ottenuto due terzi dei seggi. Il futuro capo del governo avrebbe avuto un’investitura mai vista nella storia d’Italia. Avrebbe potuto ergersi ad “alter ego” rispetto al Re.
Il 13 novembre 1923 il Senato approvò la legge Acerbo con 165 voti contro 41. L’esito era scontato. Interpellato sulle prospettive politiche del Paese il 27 ottobre Benedetto Croce, senatore e già ministro della Pubblica istruzione, dichiarò «non esiste ora un questione di liberalismo e di fascismo, ma solo una questione di forze politiche. Dove sono le forze che possano, ora, fronteggiare o prendere la successione del governo? Io non le vedo. Noto invece grande paura di un eventuale ritorno all’anarchia del 1922. Per un tale effetto nessuno che abbia senno augura un cambiamento. Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare essi l’Italia dall’anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di sé medesimi, recitare il “mea culpa” e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto e prepararsi per l’avvenire. Questo è il loro dovere». Più fatalismo che storicismo. Per far capire che le cose non erano come le vedeva il “filosofo”, i fascisti devastarono l’abitazione di Francesco Saverio Nitti, due volte presidente del Consiglio e non rassegnato al “sistema Mussolini”.
Anche l’Associazione Nazionale Combattenti (meritevole di un esame specifico) si allineò alle posizioni del governo. Un “Partito mazziniano” pubblicò un manifesto in cui ricordò la “follia demagogica” che infuriava in Italia prima dell’avvento di Mussolini. Il duce compì un periplo nelle maggiori città dell’Italia settentrionale, accolto da bene orchestrate manifestazioni di giubilo. Piero Gobetti annotò: «Il recente tentativo di creare il mussolinismo accanto al fascismo è stata la prova più pietosa della mancanza di dignità degli italiani non fascisti. La gara nel servilismo non poteva svelarsi più ripugnante.» E mise in guardia dal «nuovo domatore e dalle sue capacità di non tener fede ai patti, di guadagnare la popolarità ad ogni costo, di asservire abbagliando e lusingando».
In Senato si susseguì un coro di plausi. L’unico nettamente contrario fu Mario Abbiate. Con parole profetiche e attualissime ammonì: «Viene meno con la riforma il governo parlamentare e neppure si fa ritorno al governo costituzionale di scelta del Re. La designazione del governo si trasferisce dal Parlamento ai comitati elettorali, sostenuti da una minoranza degli elettori che può essere del 25% dei votanti corrispondente al 16% degli iscritti [cioè degli elettori, NdA]. La scelta della Corona, che può essere moderatrice ed arbitra tra i vari partiti, viene effettivamente annullata. Il malcostume parlamentare viene aggravato dal malcostume dei partiti.»
E alla fine anche il liberale Giolitti disse “no” al regime
La Camera fu sciolta per decreto reale il 25 gennaio 1924. Le elezioni furono indette per il 6 aprile. Ai blocchi di partenza i pochi partiti strutturati (comunisti, repubblicani, socialisti massimalisti e le minoranze germanofone e slavofone, la cui corposa presenza mostrava che lo Stato d’Italia non era “nazione”, come oggi enfaticamente qualcuno dice) strinsero le file e si prepararono alla gara. Il Partito socialista unitario mostrò la sua doppia anima: quella intransigente di Matteotti e quella che ricordava l’imperatore Adriano (117-134 d.Cr.): “animula vagula, blandula, pallidula…”, incline a trattative. Mussolini incaricò cinque fascisti di allestire la Lista nazionale. Il suo motore fu Cesare Rossi, della Gran Loggia d’Italia. In poche settimane vennero intruppati ex popolari, democratici, demosociali, liberali, agnostici, agrari, industriali, “intellettuali” (brutta parola per peggiore cosa, diceva Carducci) ed esponenti della società civile disposti a dare una mano e a ricevere il guiderdone della medaglietta parlamentare con prebende annesse. Il carro del presumibile vincitore si riempì all’inverosimile. Vi salirono anche Salandra, Orlando e il presidente della Camera, De Nicola.
Poiché quando si sa di compiere un errore, se ne addossano le responsabilità ad altri Orlando disse: «La verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che l’apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto da delegati di gruppo, cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. Il fascismo riconsacrò l’idea di Patria e restaurò l’autorità dello Stato.» De Nicola aggiunse: «Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale, s’affermò e vinse come protesta contro un eccesso di instabilità e di atonia dei governi. Il senso e l’intuito del Capo dello Stato risparmiarono una guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state gravissime…»
Giolitti si tenne alla larga dalla Lista nazionale e ne organizzò una, schiettamente liberale, presente in tre circoscrizioni, come voleva la legge. Un’altra, simile, fu allestita dal suo ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Camillo Corradini. Concorrevano a ottenere una sia pure minima parte dei seggi che le opposizioni si sarebbero spartiti. Briciole condannate a fare da mosche cocchiere del futuro governo di larghissima maggioranza dominato dal duce del fascismo. Nel discorso pronunciato il 16 marzo 1924 a Dronero, cuore del suo antico collegio uninominale, Giolitti spiegò l’azione politica svolta dal 1919 e delineò il programma venturo. Come già aveva sentenziato all’indomani dell’insediamento di Mussolini, la Camera aveva il governo che si meritava. Non aveva saputo darselo in varie crisi e il Paese se lo era dato da sé. Sorto al di fuori dell’orbita parlamentare era stato riportato dal Re nei binari della legalità costituzionale.
A fronte della legge elettorale, la cui formazione rivendicò come presidente della Commissione dei Diciotto, il partito liberale doveva concorrere ad assicurare pace europea, autorità dello Stato, tranquillità interna, fondata sul consenso di tutte le classi sociali, specialmente delle più numerose, e solidità dell’economia nazionale, perché «le competizioni più gravi fra i popoli civili si combattono oggi nel campo economico e finanziario». Perciò occorreva tagliare drasticamente le spese non necessarie e restaurare il bilancio statale. “Nihil sub sole novi”… Chiuse con l’appello a tener vivo almeno in Piemonte il partito di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza, Sella «e di centinaia di altri grandi patrioti» che avevano fatto l’Italia. I liberali dovevano salvare lo Stato da chi aveva reso impossibile la normale funzione del Parlamento: i “rossi” e i “neri”, socialcomunisti e popolari, capitanati del “prete intrigante”.
Era il canto del cigno di un liberalismo nato europeo e arricchito dagli esuli politici accorsi in Piemonte da tutta Italia.
Affrontata la lotta da solo, «forte dei suoi ideali, delle sue tradizioni, del suo programma, mantenendo intera la sua indipendenza», il 6 aprile il partito giolittiano ottenne 4 seggi su 535. Pochini. Contrariamente al credito da lui tributatogli, il fascismo trionfante non attuò affatto il principio “ne cives ad arma veniant”. La campagna elettorale fu costellata di morti, feriti, brogli. Il 10 giugno il segretario del PSU, Matteotti fu rapito. Morì vittima di omicidio verosimilmente non premeditato: non crimine comune, comunque, ma delitto politico.
Anche dopo quello scempio tanti liberali continuarono a votare a favore del governo. Giolitti passò finalmente all’opposizione il 24 novembre 1924. Croce salì sull’Aventino degli studi. Il 16 marzo 1928 Giolitti votò contro la legge elettorale che affidò al Gran Consiglio la composizione della lista dei candidati alla Camera, da approvare o respingere in blocco: ratifica del regime di partito unico, che segnò il decisivo distacco dallo Statuto. Morì il 17 luglio seguente sussurrando: «Non così presto…». Valeva anche per il tramonto dell’Italia liberale, travolta dalle leggi fascistissime (bavaglio alla stampa, scioglimento della massoneria, ripristino della pena di morte, divieto delle opposizioni politiche e culturali…), che non furono solo un male in sé ma costituirono le basi della successiva catastrofica alleanza con la Germania di Hitler, delle leggi razziali e della negazione del Risorgimento liberale, europeo e monarchico. Così venne imboccato il tunnel che, passo dopo passo, condusse alla Repubblica sociale italiana, approdo ultimo del voto del 21 luglio 1923: davvero una “giornata particolare”, quest’ultima, germe del fratricidio permanente. Data da segnare “nigro lapillo”.
Aldo A. Mola*
Nato a Cuneo nel 1943, Aldo Alessandro Mola è stato preside in alcuni licei dal 1977 al 1998. Nel 1980 riceve la medaglia d’oro di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. Docente di storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, è, dal 1986 direttore del Centro per la storia della Massoneria, e, dal 1992, contitolare della cattedra “Pierre-Théodore Verhaegen” dell’Université libre de Bruxelles.
È direttore del Centro Europeo Giovanni Giolitti, presidente del comitato cuneese dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, dell’Associazione di studi sul saluzzese e del Centro studi e ricerche “Urbano Rattazzi” di Alessandria. Interessante anche il suo ultimo saggio, Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922, da cui si scopre che la «marcia su Roma» dei fascisti in realtà non sarebbe mai avvenuta.
Editorialista del quotidiano Il Giornale del Piemonte e coordinatore editoriale de Il Parlamento italiano 1861-1992, Mola ha organizzato numerosi convegni di studi, specialmente per il Ministero della Difesa (Garibaldi, generale della libertà nel 1982, e la serie Forze Armate e Guerra di Liberazione). Direttore di collane di storia per vari editori, è, dal 1967, autore di saggi. Nel 2004 riceve il Premio alla Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Monarchico, è presidente di quella Consulta dei Senatori del Regno che sostiene Amedeo di Savoia-Aosta nella disputa sulla successione, e da anni sollecita il rientro in Italia delle salme dei sovrani Vittorio Emanuele III, che è tumulata ad Alessandria d’Egitto nella Cattedrale di Santa Caterina, della moglie Elena, sepolta a Montpellier, e di Umberto II e Maria José, seppelliti ad Altacomba, in Alta Savoia.