Mentre la crisi di consenso internazionale per Israele si aggrava, negli Stati Uniti la guerra a Gaza diventa sempre più una questione di politica interna.

di Ugo Tramballi*

L’8 maggio Joe Biden aveva deciso di punire la brutalità dei bombardamenti israeliani su Gaza, “sospendendo” il rifornimento di ordigni americani. Nessuna offensiva su Rafah, aveva minacciato. Ma la CNN ha scoperto che le bombe dell’altro giorno – almeno 45 civili uccisi, più di 200 feriti – erano americane.

Tuttavia il presidente non ha protestato. Il suo entourage ha precisato che Bibi Netanyahu non ha superato “la linea rossa”, a dispetto dell’opinione mondiale. Ad essere degli Azzecca-garbugli, il presidente ha ragione. Il boicottaggio riguardava le bombe da 2.000 libbre (907 chili). Quelle usate a Rafah su donne, bambini e neonati, sono GBU-39: pesano solo 285 libbre (139 chili), dunque escluse dall’ embargo. Boeing, l’azienda produttrice, le vende come armi ad alta precisione. Ma ammette che usate in aree densamente popolate, presentano dei rischi.

Le presidenziali e il vantaggio che Donald Trump continua ad avere, sono una spiegazione più che sufficiente per dare un senso a tutto questo. In Europa, Israele è in una grave crisi di consenso, la solidarietà dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas, mese dopo mese è stata sostituita dall’orrore dell’assalto a Gaza. Negli Stati Uniti no.

Ancora due mesi fa il Centro studi politici di Harvard sosteneva che l’82% degli americani adulti è “favorevole” o “molto favorevole” a Israele. A maggio un altro sondaggio di Axios affermava che l’83% degli studenti dei college e delle università sostiene “il diritto d’Israele di esistere”. La domanda era capziosa: la gran parte di chi è contro la guerra non nega i diritti israeliani ma afferma quelli palestinesi negati.

Il sostegno a Israele è più alto fra gli americani “adulti” e diminuisce fra i giovani ma dovrà passare un’altra generazione prima che cambi l’atteggiamento dell’americano medio.

Storicamente la comunità ebraica americana è liberal riguardo ai diritti civili, vota democratico. Ma ora Israele è in guerra e la comunità ne ascolta il polso più del solito: secondo l’Israel Democracy Institute il 63% degli israeliani preferisce avere Donald Trump come alleato e solo il 17 Biden; nonostante la maggioranza sia contro Bibi Netanyahu, il 55% non vuole uno stato palestinese, il 34 si. In tempo di guerra questi dati condizionano le scelte degli ebrei americani che di riflesso condizionano quelle della maggioranza degli americani.

Come la questione cubana, Israele è anche un tema di politica interna. Essere a favore dello stato ebraico è un articolo di fede delle destre religiose cristiane e perfino dei suprematisti bianchi: intimamente antisemiti, pubblicamente anti-musulmani. E’ bastato che Joe Biden ordinasse un fermo temporaneo delle bombe perché il Partito repubblicano cavalcasse l’occasione: “Un favore ad Hamas”, era stato il più moderato dei commenti. La questione è elettoralmente così importante che Biden ha accusato Trump di essere un antisemita.

Intanto un numero crescente di paesi riconosce lo stato di Palestina. All’assemblea generale Onu 143 paesi ne hanno chiesto la promozione dallo status di osservatore a quella di membro effettivo. Il mondo è sempre più complesso: il G7 e alleati, l’amicizia russo-cinese, il Sud globale. Ma se c’è una cosa sulla quale sono tutti d’accordo è uno stato per la Palestina. Tutti tranne il 55% degli israeliani.

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