Di Raffaele Romano*

Pensare di comprendere perché l’Italia sia così malridotta oggi fra tesi ora di questo ora di quel politico o, peggio ancora, da cori di giornalisti schierati a prescindere con posizioni per lo più urlate in tv o in qualche talk show è cosa inutile e dannosa.
Inutile perché, al massimo, qualcosa può essere lanciata e fatta esplodere su qualche social dove branchi di lupi assetati di sangue e motivati da solo odio sociale non fanno che avallare sempre più la tesi di Umberto Eco per cui è vero che “I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.
Dannosa perché si è perso il senso della “Storia” che con Rosario Romeo sulla rivista Nord e Sud nel 1956 aveva, una volta per tutte, demolite le tesi che Antonio Gramsci nei suoi “Quaderni del carcere”, aveva espresso con una distruttiva critica al mazziniano Partito d’azione che, secondo il teorico comunista, non aveva posto in primo piano l’esigenza di una rivoluzione agraria, e quindi si era isolato dalle masse contadine subendo così l’egemonia di Cavour e dei moderati, da cui discendeva il totale fallimento del nostro Risorgimento. A questa distruttiva tesi Rosario Romeo controbatteva che, in primis, una rivoluzione agraria e giacobina in Italia avrebbe provocato uno schieramento anti italiano delle maggiori potenze europee e, in secondo luogo, fare dell’Italia un paese rurale basato sulla piccola proprietà avrebbe richiesto una somma di capitali e di risorse inesistenti nel 19° secolo; in terzo luogo, che fin oltre la metà del secolo XIX, l’industria italiana era quasi inesistente.
Poiché non c’è futuro senza memoria storica lo sforzo sovrumano da compiere è duplice: da un lato recuperare i fatti abbandonando i pregiudizi e, dall’altro, insegnare ad usare i social come mezzo di diffusione culturale piuttosto che come sfogatoio collettivo. E, proprio per iniziare a fare chiarezza storica lasciando ad altri il compito per i social, vorrei partire da un’intervista pubblicata ad agosto del 2012 sul quotidiano La Stampa di Torino: l’intervistato era Reginald Bartholomew mentre l’intervistatore era l’attuale direttore di Repubblica Maurizio Molinari all’epoca corrispondente dagli Stati Uniti. Bartholomew era stato “Ambasciatore” degli Stati Uniti a Roma negli anni cruciali che vanno dal 1993 al 1997 ovvero gli anni che segnarono la fine della prima Repubblica e l’inizio della sedicente seconda. Di solito a Roma come ambasciatore i presidenti americani vi inviano, molto spesso, i maggiori finanziatori della propria campagna elettorale quella volta non fu così la scelta cadde su Bartholomew perché era un professionista della politica ed in quegli anni di stravolgimenti in Italia occorreva uno che era stato già sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid oltre che alla Nato.
Molinari lo incontrò e sapeva che il suo intervistato aveva compiuto 76 anni nel 2012, quello che non sapeva era legato al fatto che fosse in fase terminale per un tumore. L’incontro avvenne su richiesta del vecchio ambasciatore e non del giornalista italiano quasi volesse confessarsi laicamente. Parlò di cose e fatti sconosciute fino ad allora e che, vista la rilevanza sulla storia italiana, avrebbero dovuto sollevare un gran trambusto invece, forse visto il generale agosto, non ebbe tutto il clamore e gli approfondimenti che avrebbe meritato. Tutti i particolari li ho messi in evidenza nel mio libro “Andreotti, Craxi e Moro visti dalla CIA”. La premessa, senza che Molinari gli abbia fatto nessuna domanda, dell’ex ambasciatore sa di excusatio non petita: “Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare!” Si potrebbe aggiungere e sottintendere, tranquillamente, che: “Omnia non dicam sed quae dicam omnia vera” ovvero “Non dico tutto quello che so, ma quello che dico risponde al vero”.
In seconda battuta, a precisa domanda, afferma che se fino a quel momento il suo predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto e stretto col pool di Mani Pulite da quel momento in poi tutto ciò con lui fu bloccato e provvide a riaccentrare tutto nelle sue mani.
L’ammissione dei collegamenti fra Peter Semler, console americano a Milano dal 1990, e la Procura meneghina furono ammessi ma in Italia nessuno sentì e nessuno vide questa storica intervista che ammetteva l’intromissione nelle cosiddette tangentopoli e mafiopoli. Come se non bastasse confessò approfittando della visita in Italia del giudice della Corte Suprema statunitense Antonino Scalia l’ambasciatore Bartholomew commette anche lui una pericolosa invasione di campo: organizza una riunione con sette importanti giudici italiani e li costringe a confrontarsi con la violazione dei diritti della difesa da parte della procura di Milano.
Dei sette giudici importanti non fece i nomi e, cosa ancor più grave, fece violare dai “sette innominati” la Carta costituzionale italiana in quanto avevano giurato fedeltà e lealtà solo alla Repubblica quando avevano assunto i loro incarichi e non l’avevano sicuramente giurata ai rappresentanti di una potenza straniera anche se nostra alleata.
Chi siano questi giudici, ad oggi, non è dato ancora sapere!

 

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