di Antonio Villafranca*e Giuseppe Marcone*

Nell’epoca dell’insicurezza, l’UE si è scoperta fragile. Priva di autonomia nella difesa e di campioni industriali, cosa fare per mantenere un ruolo rilevante nel decennio a venire?

“La mia sarà una Commissione geopolitica impegnata a favore di politiche sostenibili”. Così diceva la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel 2019 quando presentava la nuova Commissione europea. Una affermazione forte per un organo che non avrebbe sulla carta un vero ruolo politico ma “tecnico”, orientato alla esecuzione di politiche indicate dal Consiglio, ovvero dai Governi, e soggetto a una (parziale) supervisione da parte del Parlamento europeo. Una affermazione quindi che lasciava intravedere una ambizione che andava a rigore addirittura al di là del mandato formale assegnato dai Trattati alla Commissione. Una affermazione anche necessaria visto che già nel 2019 – e ancor di più oggi e in prospettiva – è necessario riflettere sul ruolo geopolitico dell’Unione europea. Ma la Commissione e l’intera UE c’è davvero riuscita? E soprattutto in vista dell’avvio della nuova legislatura europea: sono state quanto meno gettate le basi per poter svolgere tale ruolo efficacemente negli anni a venire?

Geopolitica e autonomia strategica

Dal discorso della presidente della Commissione nel 2019 a oggi nel mondo è successo di tutto. A imprevedibili cigni neri (Covid e guerra in Ucraina) si sono sommati “cigni grigi” (come la guerra tra Israele e Hamas) che erano imprevedibili solo nella misura in cui ci si ostinasse a non voler vedere l’insostenibilità delle relazioni tra israeliani e palestinesi. Il tutto in un quadro globale che è cambiato con una velocità sbalorditiva e in cui nel giro di giorni – se non ore – avvengono eventi frutto di dinamiche decennali (non ultimo l’attacco iraniano su suolo israeliano). Insomma tutto oggi è diventato geopolitica. Non si può pensare a nessuna politica interna o esterna dell’Unione se non si prende prima in considerazione la portata e la velocità con cui stanno cambiando i rapporti di forza a livello internazionale. Per farlo bisogna avere una strategia a medio-lungo termine e l’UE ha cercato di darsela sintetizzandola nella locuzione “autonomia strategica aperta”.

Che all’Europa piacciano le definizioni ad effetto non è certo una novità. Basti pensare alla retorica di pochi anni fa per cui ci si poteva permettere il lusso di affermare che all’Europa bastasse essere un soft power il cui potere nel mondo può esplicitarsi nella sua capacità di orientare e normare il contesto geoeconomico mondiale (forte del più grande Mercato unico del mondo) e di basare quindi le sue relazioni politiche internazionali su questo “potere morbido” piuttosto che sull’hard power fatto di armi ed eserciti. È stato sufficiente Putin per mettere l’UE di fronte ai limiti della sua stessa retorica e far capire che nelle relazioni internazionali la politica di potenza continua a essere cruciale.

L’Europa geopolitica basata sul soft power ha dunque mostrato tutti i suoi limiti ed è stata colta impreparata dalla Russia

Se finora è riuscita a gestire la situazione e supportare l’Ucraina, l’ha fatto grazie al contributo essenziale della NATO, nascondendo di fatto le sue divisioni interne. Insomma, i nodi delle definizioni a effetto che tanto piacciono a Bruxelles sono venuti al pettine di fronte a un contesto internazionale che richiede senso della velocità e della concretezza. L’autonomia strategica aperta punta a una UE che vuole preservare la propria autonomia (economica e politica) nei settori strategici senza chiudersi alle opportunità delle relazioni economiche internazionali (su cui si fonda il modello di crescita europea). Questa si è però scontrata con la realtà dei fatti. Una realtà in cui la competizione internazionale è estremamente instabile e conflittuale e in cui si delinea uno scontro tra due superpotenze (Cina e USA).

In questo contesto, l’UE che abbiamo costruito nei decenni, e anche l’UE che ha preso decisioni coraggiose e senza precedenti negli ultimi anni (dal debito comune alla sospensione del Patto di stabilità e crescita), non è autonoma nei settori strategici. Non lo è sulla politica estera e di difesa stante un meccanismo decisionale ancora zavorrato dalla unanimità. Non lo è sul piano strettamente militare, stanti l’assenza di un vero esercito europeo e spese militari incomparabili a quelle delle grandi potenze mondiali (USA e Cina in primis). Ma rischia di non esserlo nemmeno sul piano più prettamente economico perché ha obiettivi e regole che non risultano coerenti con il contesto competitivo internazionale di oggi e di domani. La consapevolezza di questi limiti inizia a emergere sia sul piano della sicurezza che in quello economico. Su quest’ultimo il Green Deal europeo e i vari Act (come Chips Act e Critical Raw Materials Act, Net-Zero Industry Act) testimoniano una certa ambizione.

La virata a destra dell’Europa post voto (ma con una maggioranza ancora da parte del centro europeista) probabilmente non farà venir meno l’ambizione, né gli obiettivi più a lungo termine (a partire dalla neutralità carbonica entro metà secolo). Ciò che però ci si potrebbe attendere è una rimodulazione a breve-medio termine della tempistica e degli oneri per imprese e famiglie. D’altra parte, già prima delle elezioni si poneva con forza il problema di coniugare l’ambizione con un senso di concretezza.

Verso Europa 2030

“Regoliamo troppo, investiamo troppo poco, siamo troppo aperti e non difendiamo abbastanza i nostri interessi, questa è la realtà”. Ha il dono della chiarezza questa affermazione del presidente francese Emmanuel Macron nel suo discorso alla Sorbona dello scorso 25 aprile. I limiti delle politiche interne e internazionali dell’UE degli ultimi decenni ci stanno tutti, da quelli ormai ovvi sul piano della difesa a quelli sul piano geoeconomico. Per anni abbiamo (anche giustamente) pensato a rafforzare internamente il nostro Mercato unico. Abbiamo posto al centro le politiche di concorrenza interna con il giusto obiettivo di evitare pratiche oligopolistiche e puntare a vantaggi (in termini di prezzi) per i consumatori. Ma tutto ciò ha un risvolto della medaglia, anzitutto in termini dimensionali. Non è un caso se tra i 50 giganti della tecnologia nel mondo solo 4 siano europei. Così come non possiamo sorprenderci se i principali operatori della telefonia mobile siano 34 in Europa contro i 3 negli USA e i 4 in Cina. Ci siamo anche illusi per troppi anni di poter contare su energia a basso costo dalla Russia per i nostri prodotti; così come sulle materie prime critiche in possesso principalmente della Cina. Il contesto geopolitico di oggi e del futuro più prossimo semplicemente impone una revisione radicale delle nostre politiche e un “bagno di umiltà” rispetto alla nostra stessa ambizione.

Detto altrimenti, bisogna comprendere appieno come dar seguito all’ambizione di essere ancora un attore rilevante nel contesto geopolitico mondiale. Nuove politiche e finanziamenti adeguati sono gli strumenti essenziali del senso di questo “bagno di umiltà”. Questi vanno già a delinearsi nel rapporto sul Mercato unico “Much more than a Market – Speed, Security, Solidarity” – presentato da Enrico Letta – e nelle anticipazioni fornite da Mario Draghi sul suo rapporto sulla competitività che sarà presentato nelle prossime settimane. I pilastri iniziano a delinearsi: economie di scala, finanziamento di “beni pubblici” europei (dalla difesa alle infrastrutture fisiche e digitali), investimenti in risorse (dalle materie prime “critiche” a quelle “umane” con il corollario della revisione delle politiche migratorie e della centralità della ricerca e della formazione). Per far poggiare questi pilastri su basi solide due sono gli elementi essenziali:

-rivedere le nostre politiche economiche (dai sussidi di Stato alle politiche industriali e commerciali) per rilanciare la competitività esterna, anche a scapito della concorrenza interna;
-identificare le fonti di finanziamento necessarie dei “beni pubblici” europei perché all’ambizione del cambiamento facciano seguito azioni concrete e opportunamente finanziate.

In uno Stato federale il finanziamento di “beni pubblici” spetterebbe principalmente al bilancio federale. Ma l’UE non è uno Stato federale. Il suo bilancio pluriennale (l’ultimo dal 2021 al 2027) è di 1.200 miliardi di euro a cui si sono aggiunti i circa 800 miliardi del Next Generation EU (grazie alla coraggiosa vittoria sul tabù del debito comune). Se si pensa che la stessa Commissione UE ipotizza che sono necessari circa 600 miliardi (all’anno) per la sola transizione verde, ci si rende conto della esiguità di un bilancio che è tutt’altro che “federale”.

L’altra alternativa sarebbe quella di spronare, possibilmente entro un quadro europeo condiviso, gli investimenti fatti dagli Stati UE. Ma su questo pesa da quest’anno la reintroduzione/riforma del Patto di stabilità e crescita, che prova a rendere più facili gli investimenti, seppur dentro le maglie di uno stretto controllo della spesa pubblica (per consumi e investimenti). Comunque la si pensi sul nuovo Patto, sta di fatto che difficilmente i bilanci statali – soprattutto di Paesi fortemente indebitati come l’Italia – saranno in grado di approntare gli investimenti necessari per rendere concreta la stessa ambizione UE. A tal fine è necessario non solo saper interpretare bene i nuovi vincoli del Patto (spetterà alla negoziazione tra la Commissione e i vari governi), ma pensare a nuove fonti di finanziamento.

La prima dovrebbe essere la creazione di un nuovo debito comune europeo. Quando nel 2026-27 si dovrà chiudere la negoziazione sul prossimo bilancio pluriennale 2028-2034 sarà difficile ipotizzare di tornare ai 1.200 miliardi di euro, senza accompagnarlo con un nuovo indebitamento per sostenere i pilastri della competitività europea (oltre che la difesa). Sarebbe come se da un anno all’altro si tagliasse del 40% circa il bilancio di uno Stato: un taglio insostenibile per chiunque. La seconda l’ha indicata per ultimo Enrico Letta: il completamento del Mercato comune dei capitali. I risparmi privati in Europa ammontano a circa 33 trilioni di euro e di questi ogni anno 300 miliardi lasciano l’UE per dirigersi all’estero (soprattutto negli USA). Il coinvolgimento dei risparmi privati è un tassello essenziale per il nuovo quadro di finanziamento degli investimenti in Europa. Ma bisogna riconoscere che non si tratta di un compito semplice in quanto entrano in gioco fattori (come i tassi di interessi e i ritorni degli investimenti fuori dall’Europa) che solo in parte sono nelle mani dell’UE.

Insomma la portata della “concretezza” è altissima, almeno quanto l’ambizione di continuare a essere un attore politico ed economico di primo piano a livello mondiale. Il quadro che ci consegnano le elezioni europee purtroppo non è roseo. Dopo il voto l’UE appare ancora più frammentata e complessa. Sebbene il vento di destra non si sia rivelato un uragano capace di travolgere in toto gli equilibri politici in Europa, riuscirà comunque a farsi sentire. Lo farà anche con i partiti della maggioranza di centro (a partire da liberali e popolari) che cercheranno di incamerare alcune istanze delle destre proprio con l’obiettivo di arginarle. D’altra parte, non sarebbe una novità. Qualcosa del genere era accaduto dopo le elezioni del 2019 quando l’exploit dei verdi aveva avvicinato i partiti della maggioranza a politiche climate-friendly (da qui l’approvazione del Next Generation EU). Anche questa volta quindi ci si può attendere uno spostamento della maggioranza, ma in direzione probabilmente opposta rispetto al 2019. Il rischio che però si corre oggi è che nel tentativo di incamerare almeno alcune istanze di destra, si incamerino anche le loro contraddizioni nei rapporti con la Russia e la Cina, ma anche quelle verso gli USA e un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Se davvero il quadro politico europeo post voto si rivelasse così frastagliato, complesso e di conseguenza lento, il rischio è quello dell’immobilità. Ripensare profondamente l’Unione europea sarebbe in questo caso necessario. L’ipotesi dell’Europa a più velocità – ovvero della cooperazione più profonda con “chi ci sta” – potrebbe non essere più una semplice ipotesi accademica ma un inevitabile second best.

 

*Antonio Villafranca è Vice Presidente per la Ricerca dell’ISPI.Dirige l’attività di ricerca dell’Istituto ed è Co-Head dell’Osservatorio Europa e Governance Globale. All’ISPI ha coordinato vari progetti di ricerca finanziati da Istituzioni italiane (come l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento italiano) e dal Parlamento e Commissione europea (Gr:een, Rastanews, Trade and Economic Relations with Asia, e Parlatrade).Dal 2001 insegna International Relations all’Università Bocconi di Milano dove è stato lecturer di European Economic Policy (2012-2018). Ha anche insegnato ‘Structure of International Society’ all’Università IULM.Ha realizzato numerose pubblicazioni sull’economia e sulla governance mondiale ed europea tra cui: EU Economy: Fit for the Future? (con C. Altomonte), ISPI, 2023; New Fiscal Rules: The EU after Covid and the War (con F. Bruni e D. Tentori), ISPI, 2022; Europe in Identity Crisis. The Future of the EU in the Age of Nationalism (curato con C. Altomonte), ISPI, 2020; The Quest for Global Monetary Policy Coordination (con F. Bruni e J. Siaba Serrate), Economics E-Journal, Kiel Institute, 2019; Global Governance and the Role of the EU. Assessing the Future Balance of Power (curato con C. Secchi), Edward Elgar Publishing, 2011.È un economista di formazione e si è specializzato in economia e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano.È responsabile del progetto “NEXT-Empowering Future Leaders” e ha curato per l’ISPI il Think7 Italy (T7) nel 2024 e il Think20 Italy (T20) nel 2021.

*Giuseppe Marcone è Tirocinante di ricerca EUROPA E GOVERNANCE GLOBALE.Con un forte background in lingue straniere ed esperienza accademica in diversi paesi europei, Giuseppe ha conseguito un master in Politica Globale e Relazioni Internazionali (Università di Macerata). Nel 2022 consegue anche il diploma del “Master in Diplomazia” dell’ISPI. Nel corso della sua carriera si è concentrato principalmente sulla politica europea, sulla sostenibilità e sulle politiche energetiche.Prima di entrare a far parte del Centro Europa e Global Governance dell’ISPI, ha scritto anche per il Centro Studi Internazionali (CSI) e ha lavorato presso l’Ufficio Comunicazione e Relazioni Esterne dell’ICE (ICE).

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