Di Raffaele Romano
Alcuni elementi fanno del nostro paese un aggregato di pressapochismo, di molte approssimazioni e di vacuità che sono state radicate, inculcate ed accettate nella società e che nemmeno le prove documentali più eloquenti sono capaci di rimuovere. Gli elementi più caratterizzanti sono legati a due categorie che ci hanno avvinghiato per non parlare, poi, della comunicazione che in questo ha la massima responsabilità. Il primo aspetto da tener presente è che non siamo ancora usciti da un dualismo apparentemente legato alla filosofia ma, in realtà, pratico e concreto. Mi riferisco al dualismo storico fra “idealismo” ed “empirismo”. Basta ascoltare quello che auspica la classe politica nostrana oppure quello che molti scrivono sui social, si richiamano tutti al mitico motto inventato dal cinema: “italiano brava gente!”. Tanto per citarne uno fra i tanti: il 16 febbraio 1943 le forze italiane di occupazione in Grecia radunarono e uccisero oltre 150 civili, seppellendoli in fosse comuni. La strage avvenne a Domenikon, un paese della Tessaglia che si trova a poco più di 400 km a nord di Atene e prima o subito dopo ci sarà stata sicuramente qualcosa di simile alla “Ciociara” greca questa volta a parti invertite, l’unica sfortuna per i greci è che non hanno avuto un Vittorio De Sica. E, purtroppo, non fu l’unico caso infatti ce ne furono altri 400 in centri rurali sparsi tant’è vero che nel dopoguerra vennero fatte ben 180 richieste di consegna di criminali italiani da parte greca a cui seguirono 140 dall’Albania, 750 dalla Jugoslavia ed innumerevoli quelli provenienti da Libia, Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia. La commissione d’inchiesta che era guidata dal parlamentare Gasparotto in 5 anni produsse poco o nulla. Il mito degli italiani brava gente è un pregiudizio positivo sul popolo italiano nato e diffusosi in Italia e spesso accettato nel resto del mondo ma, purtroppo, come si è visto non vero. Ed è qui che si ritorna al dualismo prima richiamato: laddove il mito italiani brava gente è la precisa costruzione a tavolino di qualcosa che non c’è con la complicità di tutti i settori della società italiana. A questo punto l’Italia bisognerebbe cambiasse spalla al fucile passando al pragmatismo che si rifà ai fatti documentati e non a miti inventati per alimentare una presa in giro collettiva.
“L’idealismo è la convinzione per cui dovremmo adottare principi morali sempre, pur se essi hanno effetti negativi sulla nostra vita. … l’empirismo, invece, è il rifiuto dell’idealismo. Se i principi dell’idealista si intromettono, l’empirico fa tutto ciò che è ritenuto pratico, senza preoccupazioni.” A questo riguardo queste due scuole di pensiero, dell’Idealismo e del Pragmatismo l’italiano medio, non me ne voglia il lettore, ha scelto la doppia e comoda via: quella dell’imperativo ideale con una concezione etica forte e rigorosa per quanto riguarda gli altri mentre, per sé, fa tutto ciò che ritiene pratico e conveniente senza preoccupazioni di nessun genere.
La mancanza di empirismo ci fa rincorrere ed amplificare principi astratti in assoluto sui quali tutti si trovano d’accordo ma spesso si annunciano cose inverosimili ed assurde come il grido “abbiamo eliminato la povertà!” a cui 1 italiano su 3 ha creduto, cosa che se fosse stata detta in qualsiasi altro paese il soggetto sarebbe stato portato in trattamento sanitario obbligatorio. In estrema sintesi l’empirismo in cui la scuola, il lavoro, la politica e la cultura dovrebbero immergersi totalmente dovrebbe far proprio un importante pensiero della filosofia cinese: “non importa che il gatto sia bianco o nero; cio’ che conta è che acchiappi i topi!” purtroppo quasi sempre gli italiani fanno la guerra sui colori e perdono di vista la sostanza. Un ultimo e scottante tema che abbiamo sempre affrontato in chiave idealistica in Italia riguarda il finanziamento della politica e della fede. Un elemento così chiaro ed empirico, senza voler fare dell’idealismo o peggio ancora del moralismo, è legato al fatto che, per svolgerli entrambi, occorre danaro. E qui l’idealismo assume forme parossistiche infatti si pretende da coloro che si cimentano in politica virtù di santi mentre nulla si dice, anzi accettandolo, sulla fede.
In Italia, a proposito della fede, fu scelta la strada del finanziamento statale pubblico, il famoso 8 per mille e che quindi paghiamo tutti noi. In Germania e non solo, invece, la loro fede la pagano gli adepti e non lo Stato con il pubblico finanziamento. I tedeschi devono scrivere nella propria dichiarazione dei redditi l’appartenenza alla religione cattolica, protestante o ebraica ed in quel modo si autorizza lo Stato tedesco a prelevare dal dichiarante una precisa percentuale dal proprio reddito lordo. Se si passa alla politica che, sempre in Germania a mò di esempio europeo, costa 30 volte quella che costava in Italia ai tempi della prima Repubblica la situazione è stata affrontata e risolta in modo empirico partendo dalle effettive necessità e bisogni dei partiti come “garanzia a difesa della democrazia”.
Eppure nel pensiero dominante, la narrazione, inoculato ad arte dagli idealisti di professione sembrava che fossero i partiti politici italiani a ricevere una marea di soldi pubblici. Per far orientare chi legge la sproporzione è enorme, infatti a fronte dei 1.100 milioni (ultimi dati disponibili) di euro l’anno che la Chiesa riceve dall’8 per mille si contrapponevano le poche decine di milioni di euro ricevuti da tutti i partiti politici. Per dare un duro colpo empirico agli italici idealismi a tutt’oggi i partiti politici tedeschi (socialisti, democristiani, verdi ecc.) hanno incassato negli ultimi due decenni più di 160 milioni di euro annui con un tetto già prestabilito che può arrivare al massimo a 190 milioni annui. Una particolarità del sistema tedesco, poi, sono le Fondazioni politiche, che sono entità vicine ai partiti sebbene abbiano una distinta personalità giuridica e che ricevono altri finanziamenti.