di Aldo A. Mola

La discussione parlamentare del disegno di legge costituzionale per l’introduzione in Italia del cosiddetto “premierato” (infelice lemma anglicizzante) è appena all’inizio e già risulta incandescente. L’approvazione è disciplinata dall’articolo 138 della Costituzione, che prevede «due successive deliberazioni» di ciascuna Camera «ad intervallo non minore di tre mesi». La proposta è approvata se ottiene «la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione». La legge è quindi sottoposta «a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla [sua] pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali». Essa, tuttavia, «non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi» espressi in sede referendaria. Invece «non si fa luogo a referendum» – precisa con formula “baroccheggiante” la norma costituzionale – se nel secondo scrutinio la legge sia stata approvata con la maggioranza “rafforzata” dei due terzi in entrambi i rami del Parlamento.

Insomma, la procedura di revisione della Carta non è una passeggiata tutta in discesa. Mentre lo Statuto del Regno era flessibile, la Costituzione repubblicana è “rigida”, proprio per evitare “colpi di mano” da parte di una maggioranza parlamentare le cui fortune dipendono dagli umori cangianti dei votanti, dalle leggi elettorali (quelle che stanno bollendo in pentola sono tuttora un mistero misterioso) e da eventi internazionali fuori controllo da parte dello Stato d’Italia.

I Costituenti partirono dal tacito presupposto che le riforme della Carta non riguardassero né i Principi fondamentali, né i Diritti e doveri dei cittadini, né i poteri apicali dello Stato. A ragion veduta, ovvero sulla base dei settantacinque anni trascorsi dall’entrata in vigore della Costituzione, si può lecitamente osservare che forse sarebbe stata opportuna qualche cautela ulteriore per mettere al sicuro i capisaldi dello Stato da possibili colpi di mano da parte del 50% dei componenti delle Camere. Se una maggioranza modificasse radicalmente la struttura della Carta, che cosa potrebbe avvenire nei tre mesi decorrenti dalla pubblicazione della legge alla eventuale richiesta di referendum? Tre mesi sono nulla in tempi ordinari. Possono divenire una voragine in quelli di emergenza assoluta, come quelli segnati dall’incombente “stato di guerra”.

La “concordia discors” dei Padri Costituenti

Nel 1946-1947 i partiti rappresentati nell’Assemblea costituente in sei mesi dall’insediamento si divisero in due schieramenti sempre più netti e infine frontalmente contrapposti dinanzi all’incipiente guerra fredda tra i due blocchi, nettamente indicati dal discorso di Churchill a Fulton il 5 marzo 1946: l’“Occidente”, capitanato da USA e Gran Bretagna, da un canto; l’Unione sovietica e i Paesi rapidamente soggiogati dall’Armata Rossa e dai partiti comunisti affratellati nel Kominform, dall’altro. Però quella contrapposizione non inficiò la concordia dei costituenti a un livello superiore: la condivisione dell’obiettivo di evitare il ritorno di un regime di partito unico. Perciò vietarono «sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista» (XII disposizione transitoria e finale). I “patres” non specificarono però se tale fosse il Partito fascista repubblicano sorto nel 1943 con la Repubblica sociale italiana o quello Nazionale fascista, nato massonofago a metà febbraio 1923 dalla fusione tra il partito mussoliniano e l’Associazione nazionalista.

In acuti studi Aldo G. Ricci ha approfondito il minore rilievo ottenuto dai liberali e, in generale, dai “moderati” nei lavori dell’Assemblea costituente. Meno ancora vi contarono i monarchici, che vennero identificati con gli ultimi due Re d’Italia e furono quindi ingenerosamente demonizzati e pressoché ignorati in Aula. Nondimeno è indubbio il peso esercitato sia liberal-monarchici quali Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico De Nicola, sia da Francesco Saverio Nitti, che si condusse al di fuori di ogni schieramento, sia, infine, dai Democratici del lavoro come Meuccio Ruini, autorevole presidente della Commissione dei Settantacinque che elaborò la bozza della Carta. Insomma la Costituente resse al logorio al quale era sottoposto l’“arco costituzionale”, rievocato (o almeno invocato) decenni dopo per varare governi “di emergenza” (come quelli della “non sfiducia”), garanti della salvaguardia dei capisaldi della democrazia parlamentare. Tre quarti di secolo hanno mostrato che, così com’è, l’assetto dei poteri supremi regge agli urti e garantisce quanto è necessario e sufficiente in una democrazia matura: la sovranità dei cittadini tramite il voto (chi non lo esercita risponde delle conseguenze della propria scelta), la centralità del Parlamento, il ruolo arbitrale del Capo dello Stato rispetto alle fazioni. Non per caso i Costituenti ne fissarono la durata in carica in sette anni, reiterabili, contro i cinque delle Camere. Fu una delle tante positive “eredità” della monarchia nel regime repubblicano: propiziare la continuità della massima istituzione al di sopra delle burrasche della politica quotidiana e al riparo di fatui protagonismi.

Sulla proposta di revisione della Costituzione oggi prevalgono tre orientamenti. Uno si prefigge la sua approvazione a tamburo battente, così come è stata presentata, costi quel che costi: fosse pure un referendum. «O la va, o la spacca», ha detto Meloni. Il suo punto di debolezza logico-cronologica sta nella dissociazione tra il principale proponente e l’esito dell’eventuale consultazione referendaria. Se dalle urne venisse un “no” alla proposta ciò non potrebbe non ripercuotersi proprio su chi, con la modifica della Carta, chiede sia il “popolo” a eleggere il presidente del Consiglio, con poteri rafforzati rispetto agli attuali e oggettivo ridimensionamento di quelli riservati al Presidente della Repubblica, come tutti i costituzionalisti asseriscono. L’esito infausto del referendum indebolirebbe chi ha assunto il “popolo” a elettore diretto alla carica di presidente del governo.

Un secondo orientamento, fiutato il vento, mira a impedire che la proposta governativa venga approvata dalle Camere nei termini previsti dalla Carta e già si attrezza per una lunga campagna referendaria, propizia all’accorpamento del dissenso in opposizione unitaria frontale, come è accaduto in passato. Se anche non se lo fosse proposto, qualunque opposizione dai prossimi mesi avrà il triste vantaggio di vedere il governo alle prese con il declino del prodotto interno lordo e la rarefazione delle risorse, con severe conseguenze economiche e sociali, a prescindere da quelle, imponderabili, di guerre fuori controllo. Se anche restassero inerti e non trasferissero il “confronto” da aule rissose a piazze rumorose, le opposizioni avranno il vantaggio del malessere diffuso, che dilaga in tanti Paesi dell’Unione Europea sempre più labile per l’irrisolta asimmetricità dei suoi istituzioni: Consiglio europeo, Assemblea parlamentare e Commissione, tre “corpi separati”.

Per terzi alcuni suggeriscono all’opposizione di non respingere sic et simpliciter la riforma proposta dal governo e di proporre emendamenti correttivi. Lo fa Stefano Folli in “Repubblica”. «A quoi bon?», direbbero Oltralpe? Si porrebbero da sé a un bivio: accolti i loro emendamenti, dovrebbero accettare la riforma e quindi la propria sconfitta campale; se respinti (a colpi di fiducia, come si prospetta), si porrebbero in una posizione ambigua dinnanzi all’opinione dei propri elettori, che non apprezzerebbero tattiche bizantine in un confronto che esige posizioni nette ed argomentate non con circonlocuzioni verbose ma con parole chiare, comprensibili e apprezzabili anche da parte del 50% e più di cittadini che mostra sfiducia nelle Istituzioni disertando le urne e cambia canale quando i telegiornali sciorinano la solita epopea della politica politicante.

Un misterioso statuto monarchico post-fascista (1945)

A cospetto dell’imminente ripresa della discussione parlamentare sulla riforma della Costituzione riesce interessante la riscoperta dei tentativi di aggiornare lo Statuto lbertino nei mesi precedenti la consultazione referendaria del 2-3 giugno 1946. È una pagina di storia pressoché dimenticata. Motivo in più per rifletterci.

Si tratta di un “caso dormiente” di storia costituzionale. Se ne era occupato Ruggero Zangrandi in Settembre 1943, pubblicato da Feltrinelli nel lontano giugno 1964. Esploratore d’archivi, giornalista e scrittore di talento, Zangrandi aveva alle sue spalle il Lungo viaggio attraverso il fascismo, che nel 1947 aveva documentato i trascorsi in camicia nera di tanti maggiorenti dell’antifascismo e del postfascismo, e il romanzo autobiografico La tradotta del Brennero (1956) sulle sue peripezie di detenuto, passato dalle carceri italiane in cui venne rinchiuso per antifascismo a quelle naziste. In una delle decine di Appendici di 1943 Zangrandi pubblicò «Documenti sulla consulenza inglese per la luogotenenza e per il progetto monarchico di un nuova Costituzione». Con un titolo da rivista accademica più che da libro “militante” l’autore documentò come gli inglesi si fossero adoperati «per salvare la dinastia di Savoia». Quel poderoso volume suscitò polemiche aspre sul presunto “baratto” tra il governo Badoglio e i tedeschi. Il Maresciallo avrebbe avuto via libera da Roma verso Pescara e la Puglia in cambio dell’inazione delle forze armate italiane contro le divisioni germaniche che, dilagate da fine luglio, avevano ormai circondato la capitale e si impadronirono dell’Italia centro-settentrionale: un’insinuazione confutata anche da storici poco teneri nei confronti della monarchia, compreso Marco Patricelli, autore di Tagliare la corda (2023). Nella seconda edizione del libro (novembre 1964: all’epoca tanti italiani divoravano avidamente e animatamente discutevano libri di oltre mille pagine) Zangrandi aggiunse ai documenti (pp. 1068-1076) una cortese lettera di precisazioni inviatagli da Guy G. Hannaford, che si era occupato della Luogotenenza e dell’abbozzo di nuova costituzione mentre era Deputy Chief Legal Advisor della Commissione Alleata di Controllo in Italia (1944-1945).

Nel 1970 Zangrandi si uccise. Col tempo e con il cambio di temperatura politica, esaurito l’“autunno caldo” del 1969, le polemiche suscitate dai suoi libri si assopirono e il suo stesso nome via via disparve dall’orizzonte degli studi. Non è stato riesumato neppure nell’ottantesimo del 1943. Già lasciato ai margini nel 1964, il “caso” del progetto di aggiornamento monarchico della costituzione italiana disparve, tanto più che non affiorò neppure dalla pubblicazione, parziale, dei “diari” di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa di Umberto, Luogotenente e Re d’Italia.

Ciaurro e Palazzolo riscoprono Zagrandi: Reggenza o Luogotenenza?

A sorpresa Zangrandi è stato recentemente richiamato all’attenzione dall’intervista rilasciata dal giurista Luigi Ciaurro (docente di diritto parlamentare in due Università romane di alto prestigio) al giornalista Lanfranco Palazzolo, capo dei servizi parlamentari per Radio Radicale e autore di saggi su Leonardo Sciascia, Enzo Tortora, Marco Pannella, Edoardo Sanguineti e sul “compagno Napolitano”, dirigente del partito comunista italiano (2011). Malgrado lunghe e accurate investigazioni, Ciaurro non ha rintracciato l’“abbozzo” di «nuova Costituzione, elaborato per conto della monarchia nell’autunno ’45, evidentemente per influire sull’imminente referendum istituzionale, che non fu poi promulgata per ragioni che ci sfuggono» (Zangrandi) e ha concluso l’intervista invitando quanti conservino quel documento a renderlo di pubblico dominio.

Non entriamo in questa sede nelle ipotesi a tale riguardo velatamente avanzate dal professor Ciaurro, né sulla sintesi che ne ha proposto e sul suo possibile autore: forse il torinese Emilio Crosa, giurista eminente ed esponente del monarchico “Movimento Cavour”, ricevuto con lo storico Francesco Cognasso da Umberto II in visita a Torino il 6 ottobre 1945. Interessa, invece, il commento che a suo tempo ne fu redatto dal tenente colonnello Guy G. Hannaford, incaricato di studiare l’istituto della Reggenza dal brigadiere generale Gerald Upjohn, d’intesa con Noel Mason-MacFarlane e Charles Taylor, “plenipotenziari” anglo-americani nell’Italia liberata. Erano i mesi nei quali molti monarchici e liberali (incluso Benedetto Croce) chiedevano (anche con veemenza) l’immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinuncia al trono di suo figlio Umberto e la trasmissione della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di soli sette anni e quindi sotto un Reggente. A giudizio di Hannaford «se il principino di Napoli divenisse re sotto un reggente (suo padre) e vi fosse un referendum (sulla forma istituzionale, monarchia o repubblica, N.d.A), nessuna donna italiana, comunista o no, voterebbe per togliere il regno a questo incantevole bambino. Ma tutto dipende dal vecchio Vittorio». Come egli stesso narrò nella lettera inviata a Zangrandi appena letto 1943, Hannaford si procurò «per pochi soldi» il Nuovo Digesto Italiano e alcuni saggi di costituzionalisti, li studiò e approntò il memorandum sulla Reggenza per rispondere a tre domande: «Può il Re abdicare a favore di suo nipote, scavalcando così i diritti dell’erede legittimo, il principe di Piemonte? Esiste un meccanismo costituzionale per il quale possa essere nominato Reggente, per un re minorenne, persona non facente parte della Casa Reale, ammesso che il Re e il principe di Piemonte possano essere persuasi ad abdicare? Si può costituire un Consiglio di Reggenza e chi ne potrebbero essere i componenti? (la Regina Madre, il primo ministro, un rappresentante del Papa: l’arcivescovo di Bari?)» Nel rapporto inviato ai “superiori” il 21 dicembre 1943 Hannaford concluse che «in nessun caso il Reggente può essere scelto al di fuori della Casa Reale». Perciò la risposta ai tre quesiti era negativa. Invitò a prendere in considerazione la Luogotenenza anziché la Reggenza, quale «possibile soluzione del problema». Illustrò anche le condizioni della nomina e della durata del possibile Reggente: «Fino alla liberazione del territorio italiano dal nemico e alla possibilità per il popolo italiano di esprimere liberamente la sua volontà quanto alla forma di governo che intende avere. Lo stesso Re dovrebbe acconsentire ad attenersi al volere del popolo; dichiarazione che, in pratica, egli (Vittorio Emanuele III) ha già fatto.»

Dunque il conferimento della Luogotenenza a Umberto di Piemonte (enunciata dal Re al Consiglio dei ministri a metà marzo 1944 e resa pubblica il 12 aprile) non sarebbe stato ideato da Enrico De Nicola, come asserito dalla storiografa e dalla memorialistica, ma era già ipotizzato dagli anglo-americani su suggerimento del tenente colonnello Hannaford, sia pure senza l’indicazione esplicita del suo titolare e con una precisa delimitazione delle sue prerogative: «attività amministrative, legali e non-politiche.» Era «l’unico modo di uscir fuori dal presente impasse, dal momento che nessun’altra soluzione appare attuabile, se non violando insieme la Costituzione e i basilari Statuti del Regno».

Hannaford sorvolò sull’articolo 15 dello Statuto albertino, in forza del quale, in assenza di eredi diretti del Re, di parenti maschi e della Regina Madre «le Camere, convocate fra dieci giorni dai Ministri, nomineranno il Reggente», in carica «durante la minorità del Re» (art. 12). L’omissione va verosimilmente attribuita non a sua distrazione o incompetenza ma alle circostanze di fatto: la Camera dei fasci e delle corporazioni era stata sciolta il 27 luglio 1943 e lo stato di guerra impediva convocazione e riunione del Senato. Per di più la Regina Madre (la principessa Maria José) era riparata con i figli in Svizzera. Per un ufficiale pragmatico come lui l’articolo 15 dello Statuto era quindi impraticabile. Tuttavia l’ipotesi della nomina di un Reggente aleggiò a lungo. Quale suo titolare venne persino individuato Badoglio, che ne informò Vittorio Emanuele III, suscitandone l’irritazione perché in totale violazione dello Statuto.

Una nuova Costituzione monarchica

Altrettanto interessante è il secondo memorandum redatto da Hannaford «sull’abbozzo di costituzione sottoposto(gli) per un giudizio», pubblicato da Zangrandi e commentato dal professor Ciaurro in dialogo con Palazzolo. Dalle osservazioni del militare inglese si arguiscono le sue «parecchie interessanti innovazioni, ma anche inaspettate reminiscenze dell’immediato passato politico del Paese oltre a un certo numero di deplorevoli lacune”».

Zangrandi non pubblica la “relazione” che accompagnò l’abbozzo “al Re”, ovvero al Luogotenente, e omette molte annotazioni di Hannaford (dal punto 3° all’11°). I “commenti” pubblicati risultano interessanti. Egli osservò che la riaffermazione della religione cattolica romana quale “religione della Nazione” (con garanzia di libertà e di protezione per le altre religioni) valeva per l’oggi ma poteva non esserlo più in futuro sicché quell’articolo sarebbe caduto in disuso.

Ad Hannaford risultò curioso che per dettato costituzionale il re dovesse essere laureato e svolgere conferenze ogni anno in università di sua scelta. «Il Re – egli osservò – può essere un sovrano eccezionale e non un buon conferenziere. Appare poco saggio infine esporre la sua persona e la sua dignità al ridicolo di una magra figura.» Peggio ancora, quell’abbozzo voleva negare al re il diritto «d’indossare la sua uniforme quando e dove ritiene opportuno». La Suprema Corte Costituzionale prospettata dall’abbozzo, benché «ardito esperimento», generava molti dubbi per la sua composizione. Includeva infatti i presidenti dell’Organizzazione generale del lavoro e della Federazione nazionale degli imprenditori. Riecheggiava la Carta del Lavoro del 1927, orgoglio del regime, e non sarebbe stata «vista di buon occhio nei paesi democratici». Per di più essa comprendeva il vescovo di Roma (ovvero il Papa), «che è obbligato a due obbedienze temporali». Nell’insieme, e in sintesi, l’ “abbozzo” andava «attentamente revisionato, in modo da renderlo più convincente e talvolta redatto più accuratamente».

La generalità dei monarchici ne rimase all’oscuro. Non si sa quanti avrebbero apprezzato l’articolo 2 che aboliva la legge salica e consentiva «l’accesso al trono a eredi maschi o femmine pari passu». Quella “Carta” finì dimenticata sino a quando ne accennò Ora è riesumata, come reliquia curiosa, dal colloquio tra il professor Caurro a Palazzolo. A conferma che le modifiche delle Carte costituzionali sono impegno arduo, da affrontare con pacatezza e lungimiranza, in una prospettiva di unità anziché di scontro divisivo, tanto più quando da anni si ode, sempre più vicino, il rullio dei tamburi di guerra e bisogna puntare, se necessario, a larghissime intese nell’interesse generale e permanente dello Stato d’Italia.

Aldo A. Mola

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