Di Domenico Maceri*

“Con quel sistema nessuno potrebbe divenire presidente”. Così Bernie Sanders durante la sua campagna presidenziale nel 2006 mentre spiegava l’inadeguatezza del sistema federale di finanziare le campagne elettorali. Nei suoi due tentativi di vincere la nomination del Partito Democratico (2016, 2020) Sanders ebbe notevole successo con la raccolta di fondi da piccoli contribuenti rifiutando contributi da corporation.

Sanders non è l’unico ad arrendersi al fatto che i finanziamenti pubblici in America sono stati affondati da una montagna di soldi. Se per Sanders la soluzione è stata di farsi finanziare da piccoli contribuenti, altri hanno dovuto seguire la strada di “big boys”, grossi contribuenti, che ovviamente scuotono la democrazia. Non si vuole asserire che gli ultra ricchi possano comprare il governo, ma come suggerì Huey Long, il populista governatore della Louisiana molti anni fa, “la differenza tra un contributo politico e una tangente è sottilissima”.

Nessuno dei due candidati presidenziali del 2024 ha accettato i finanziamenti pubblici che imporrebbero severi limiti alle loro spese politiche. Joe Biden e Donald Trump si fanno la guerra non solo per i voti degli americani ma anche per conquistarsi i più soldi possibili. Si prevedono spese record in questa campagna elettorale che oltrepasseranno quella del 2020 di 14 miliardi per tutti i candidati.

Le cifre già annunciate di contributi politici rivelano una concorrenza spietata con una leggera vittoria di Biden ma con Trump che gli si è avvicinato e ha quasi eliminato il gap. Alla fine del mese di maggio Biden aveva 212 milioni nelle tasche ma i repubblicani non hanno voluto dichiarare il loro totale. Ciononostante si sa che nelle ultime settimane il partito di Trump ha ricevuto notevoli contributi. Nel suo viaggio alla costa ovest del Paese Trump è riuscito a raccogliere 27 milioni di dollari. Inoltre un Super Pac (Super Political Action Committee), gruppo che raccoglie fondi illimitati che lo sostiene, ha ricevuto 50 milioni di dollari dall’imprenditore conservatore Timothy Mellon. Anche Robert Kennedy, la cui presenza nell’elezione potrebbe svantaggiare Biden, ha ricevuto contributi da Mellon. La campagna di Trump ha anche annunciato che nelle 24 ore dopo la sua condanna nel processo di Manhattan il mese scorso ha ricevuto 34 milioni di dollari in donazioni.

Biden da parte sua ha raccolto 30 milioni nel suo viaggio in California e ha anche ottenuto un contributo di 20 milioni da parte di Michael Bloomberg, ex sindaco di New York. Il totale per il mese di maggio per Biden ha raggiunto 85 milioni di dollari.

Nelle campagne politiche i soldi possono facilmente fare la differenza come abbiamo visto recentemente nelle primarie democratiche del 16esimo distretto di New York. Un totale di 25 milioni di dollari sono stati spesi, un record storico per elezioni primarie, 23 a favore di George Latimer e 2 pro Jamaal Bowman. Latimer, il candidato democratico centrista, ha sconfitto il candidato progressista Bowman, l’attuale parlamentare. Bowman era stato preso di mira da un Super Pac dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), gruppo pro Israele, perché aveva preso delle posizioni pro Palestina.

L’influenza dei soldi nella politica Usa è divenuta molto più pericolosa poiché i Super Pac beneficiano di una clausola che gli permette di non dover rivelare le loro fonti fin dopo l’elezione. Preoccupa che nelle elezioni presidenziali entrino quattrini di altri Paesi, specialmente favorevoli a Trump, poiché la sua politica estera potrebbe essere allettante considerando l’isolazionismo del candidato repubblicano. Inoltre si sa benissimo che la politica di Trump in tutti i suoi rispetti consiste di transazioni che rimandano alle sue radici di imprenditore.

Ma al di là del possibile oscurantismo i soldi sono indispensabili per ambedue candidati che li usano in parte per pagare annunci televisivi attaccando il loro avversario. Vengono anche usati per aprire uffici con dipendenti in centri di Stati in bilico che determineranno l’esito elettorale. In questo rispetto Biden è avanti avendo già aperto più di 200 uffici in parecchi Stati.

I soldi sono divenuti indispensabili poiché i finanziamenti pubblici hanno fallito. Va ricordato che il primo candidato presidenziale a rifiutare fondi governativi alle elezioni primarie fu George W. Bush nel 2000. Fu seguito da Barack Obama il quale li rifiutò nell’elezione generale del 2008. La democrazia non si compra ma il fatto che le corporation contribuiscano ingenti somme non avviene per altruismo. Lo fanno perché vedono questi dollari spesi come un investimento che ha il potenziale di produrre profitti con eventuali politiche a loro favorevoli. Per il cittadino comune un sistema politico finanziato dagli americani rafforzerebbe la democrazia creando più fiducia nelle istituzioni. Sfortunatamente rimettere in piedi finanziamenti pubblici alle elezioni è divenuto impossibile e quindi ci si sfida non solo per i voti ma anche i soldi che faciliteranno i consensi elettorali.

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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della  National Association of Hispanic Publications.

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