Editoriale di Daniela Piesco Direttore Responsabile
Sono passati 160 anni dall’unità d’Italia. Nel 1861 il meridione (regno assoluto dei Borbone, con territori che conservavano vaste sacche di povertà nelle zone interne) aveva un sistema bancario tra i più floridi d’Europa e risorse finanziarie che velocemente presero la via del Nord. I “capitali” si trasferirono subito verso Torino e il Banco delle due Sicilie (poi divenuto banco di Napoli) passò sotto la guida di funzionari piemontesi.
Oggi, in un contesto profondamente diverso, il Sud continua a versare lacrime sulle sue piaghe senza alcuna capacità di programmare al meglio il proprio futuro. Così è stato negli anni della “Cassa del Mezzogiorno”, quando ingenti risorse arrivarono nelle regioni meridionali, ma quasi mai vennero spesi per favorire uno sviluppo reale; così negli anni dell’industrializzazione (Gela, Priolo, Termini Imerese, Pomigliano d’Arco, l’Ilva di Taranto, Rwm Italia nel Sulcis). Oggi restano solo le macerie, la storia di uno sviluppo fallito e di un territorio che è stato massacrato. Resiste , ed è anzi più florida purtroppo , solo la fabbrica di armi del Sud Sardegna.
Ora, l’autonomia differenziata. Cosa cambierà per le regioni meridionali?
La storia ci dirà se essa avrà fatto bene al Paese o se sarà servita a marcare le differenze. La cronaca di questi giorni ci dirà come si muoverà il Paese e le sue forze politiche e sociali. Che forse sull’autonomia differenziata si sono svegliati troppo tardi.
Si promuoverà un referendum. Che sarà , ancora una volta , una prova di forze tra le correnti politiche. Che potrà servire , a seconda di quale punto di vista si vorrà considerare , a salvare il Paese dai rischi di uno sfaldamento o potrà imprimere una svolta al suo sviluppo.
Ci si augura che il voto referendario sia consapevole e si basi sui fatti. Che non sia solo supportato da logiche correntizie e di partito. Ma questo forse oggi è chiedere troppo alla maturità di questo Paese e del suo elettorato. Sempre più lontano , complici anche le riforme elettorali , dalla politica italiana. E che sempre più in massa diserta le urne al momento del voto.
Allo stato dei fatti la Campania è la prima Regione a fare un passo verso il referendum abrogativo, come previsto dalla Costituzione, per tentare di cancellare la riforma Calderoli. A essa dovrebbero unirsi le altre quattro Regioni governate dal centrosinistra (Emilia-Romagna, Sardegna, Puglia e Toscana), per arrivare al numero minimo richiesto dalla Costituzione, ossia cinque, per chiedere l’indizione di un referendum abrogativo.
Sul testo dovrebbero ora convergere i consiglieri emiliano-romagnoli, la cui assemblea è convocata per le prossime ore, poi a seguire Cagliari, Bari e Firenze.
Rivolgendosi agli amici del Nord, De Luca ha chiesto onestà intellettuale e l’approvazione di tre emendamenti.
Il primo prevede risorse uguali per sanità e scuola pubblica in tutte le regioni italiane. Il secondo stabilisce che il numero di medici e personale sanitario sia proporzionato agli abitanti di ciascuna regione. Il terzo emendamento vieta alle Regioni di stipulare contratti integrativi regionali per sanità e scuola
De Luca ha espresso preoccupazione per l’impatto di contratti regionali che potrebbero aumentare le retribuzioni dei medici, temendo che ciò possa causare una migrazione di giovani professionisti dal Sud al Nord, compromettendo la sanità meridionale. Ha ribadito che con l’approvazione di questi tre emendamenti, si potrebbe andare avanti con la discussione sull’autonomia.
Il quesito del referendum recita: «Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione?».
Per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata, gli elettori dovranno rispondere «Sì».
Il referendum abrogativo, previsto dall’articolo 75 della Costituzione, permette a 500.000 cittadini o a cinque Consigli regionali di richiedere l’abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge(sono esclusi dal referendum le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia, di indulto e di ratifica di trattati internazionali) Per essere valido, il referendum deve raggiungere il quorum, ossia la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto, e ottenere la maggioranza dei voti validi espressi. La legge n. 352 del 1970 stabilisce le modalità di attuazione del referendum.
Per andare avanti bisognerà aspettare che la Corte di Cassazione verifica la regolarità delle firme raccolte dai promotori, assicurandosi che siano autentiche e che rispettino i requisiti formali.
Una volta approvate, la proposta passa alla Corte Costituzionale, che valuta l’ammissibilità del referendum. La Corte Costituzionale verifica che la proposta non riguardi materie escluse e assicura che non violi principi costituzionali. Se la Corte Costituzionale la ritiene ammissibile, il referendum può essere indetto e sottoposto al voto popolare.
I punti che vorrei sollevare sono due:
1) l’uso dell’astensione come arma politica per fare fallire un referendum dà un vantaggio in partenza ai sostenitori del «no», dal momento che c’è sempre un tasso di astensione «fisiologico»: il «sì» e il «no» non giocano alla pari, perché il primo deve superare quel tasso di astensione fisiologico, arruolato indebitamente nel fronte del «no»;
2) l’astensione non può essere promossa da cariche istituzionali che devono il loro ruolo proprio al voto degli elettori.E’ una grave violazione dell’etica pubblica l’uso partigiano delle cariche pubbliche, in Italia purtroppo frequente; tanto più se questo uso va a delegittimare le basi stesse della democrazia, cioè il voto.
È del tutto corretto dire che in generale l’astensione non fa bene alla democrazia. E poiché il voto è un dovere civico ma non un obbligo giuridico, è solo sul piano dell’etica pubblica condivisa che si può combattere l’astensione e promuovere la partecipazione.
Per promuovere la partecipazione non bisogna.pero’ demonizzare chi si astiene: questo tipo di reazione «morale» rischia di scavare ulteriormente il fossato tra elettori e istituzioni. Per promuovere la partecipazione bisogna dare a chi si astiene delle buone ragioni per partecipare. La responsabilità quindi è ancora una volta delle forze politiche.
pH Fernando Oliva