Di Raffaele Romano

Tre giorni prima di Raoul Gardini, precisamente il 20 luglio del 1992 nel carcere milanese di San Vittore, si tolse la vita il presidente dell’ENI Gabriele Cagliari. Venne trovato nelle docce del bagno della cella n. 102 del carcere con la testa infilata in una busta di plastica a sua volta chiusa e stretta intorno al suo collo.

Il manager Gabriele Cagliari era in carcerazione preventiva, strumento molto abusato illo tempore e ancora oggi, dal lontano 8 marzo e c’era finito per una presunta tangente versata e gestita dal finanziere svizzero Pier Francesco Bacini Battaglia definito, come era d’uso in quell’epoca dal pool di Mani Pulite, un “gradino sotto Gesù Cristo”.

Due giorni dopo Pacini Battaglia si costituì e confessò di aver gestito con la sua banca Karfinco circa 500 miliardi di lire di fondi neri Eni, una cifra enorme ma, al contrario di Cagliari, venne subito rilasciato senza nemmeno un solo giorno di carcere.

Mentre era in carcere il presidente dell’ENI ricevette un secondo provvedimento di custodia cautelare emesso non dal pool di mani pulite ma da un altro magistrato il sostituto procuratore Fabio De Pasquale che indagava sulla SAI assicurazioni di Salvatore Ligresti il quale aveva ottenuto l’esclusiva per i contratti di assicurazione dei dipendenti ENI. Negli interrogatori per il primo provvedimento Cagliari si dichiarò totalmente estraneo alla vicenda delle tangenti e, per tale motivo, il pool convito evidentemente ne aveva ritirato i conseguenti provvedimenti di carcerazione. A quel punto rimaneva solo il provvedimento del De Pasquale il quale, in un interrogatorio del 17 luglio e alla presenza dell’avvocato difensore Vittorio D’Aiello, prima promise la scarcerazione e successivamente cambiò idea formulando un parere negativo.

La tragica conseguenza fu quella di togliersi la vita lasciando una lettera ai propri familiari: “La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto…………………Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato……………. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti……………… Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima……………………………Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere……………………… Non ho alternative. Desidero essere cremato”.

La risposta a questa barbarie del carcere preventivo venne anche da Indro Montanelli che il 3 agosto del 1995 in un suo articolo così scriveva: “…………………………Ci costa un grande sforzo muovere accuse ai giudici, che nella lotta alla mafia hanno lasciato sul terreno fior di eroi, di cui Falcone e Borsellino non sono che gli ultimi capifila. Ma accanto a questi eroi ci sono, mimetizzati dalla toga, degli autentici lazzaroni che, sbattuto qualcuno in galera, se ne vanno in vacanza, del recluso si ricordano solo nelle interviste a giornali e televisioni ed al ritorno passano il tempo a baloccarsi in fluviali atti istruttori frastagliati d’inghippi procedurali e quasi sempre scritti coi piedi, ma con piedi pretenziosi, perfino con civetterie letterarie. Fin qui – credo – tutti d’accordo”.

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