Di Domenico Maceri 

Ho deciso di non accettare la nomination e di concentrare tutte le mie energie sui miei compiti di presidente per il resto del mio mandato”. Con queste parole Joe Biden si è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca. La parola chiave è energie. Biden nelle ultime settimane aveva dato chiari segnali che svolgere tutti i suoi compiti erano troppi. Infatti, l’attuale inquilino alla Casa Bianca aveva tre compiti: il lavoro di presidente della nazione più importante al mondo, la campagna elettorale, e un terzo di “correggere” i media che in grande misura hanno fatto ben poco per inquadrare l’incandidabilità di Donald Trump.

Dopo la disastrosa performance al dibattito con Trump nella quale Biden si è rivelato incapace di offrire un vigoroso contrasto con le menzogne a valanga del suo avversario, l’attuale presidente ha cercato in parecchie interviste di dimostrare che quella serata era un’anomalia. Non vi è riuscito e dopo il contagio del covid e le costanti pressioni aggiunte ai sondaggi che lo vedevano in pericolo persino in alcuni Stati tradizionalmente democratici, Biden ha deciso per il bene del Paese di mettersi da parte. Il 46esimo presidente ha passato la torcia a Kamala Harris che potrebbe salvare l’America dal disastro di un secondo mandato di Trump.

Nel suo annuncio Biden ha offerto il suo endorsement alla sua vice la quale ha dichiarato che farà di tutto per conquistarsi la nomination. Al momento vi sarebbero due strade per “l’incoronazione” della vicepresidente. La prima sarebbe un voto virtuale prima della convention del mese prossimo. La seconda una “open convention”, convenzione aperta in cui i probabili candidati presenterebbero le loro credenziali trattando di conquistarsi la maggioranza dei voti dei delegati.

Fino al momento di scrivere nessuno eccetto la Harris ha dichiarato l’intenzione di essere interessato. I nomi che si erano fatti come possibili papabili hanno già offerto il loro endorsement alla Harris, indicando che non scenderanno in campo. Questi includono il governatore della California Gavin Newsom, Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania, e J. B. Pritzker, governatore dell’Illinois. Alcuni luminari del Partito Democratico come Bill e Hillary Clinton hanno anche loro offerto l’endorsement come pure Nancy Pelosi, l’ex speaker della Camera. Quest’ultimo endorsement è molto significativo poiché in precedenza la Pelosi aveva indicato la necessità di “un’open convention”. Mancano gli endorsement di Barack Obama e di Chuck Schumer, attuale presidente del Senato. Dopo l’annuncio di Biden e la probabile nomina di Harris l’entusiasmo dei donatori è rinato e in solo 24 ore il Partito Democratico ha ricevuto 83 milioni di dollari in donazioni.

Una “open convention” a Chicago il mese prossimo richiama quella storica del 1968. Anche in quel caso il presidente in carica, Lyndon Johnson, annunciò il rifiuto della nomina del suo partito. Ne vennero fuori tafferugli, manifestazioni nelle strade di Chicago contro la guerra in Viet Nam, e un’immagine del Partito Democratico incapace di condurre i propri affari, dando l’impressione dell’incapacità di governare il Paese.

Questa volta non sarebbe lo stesso poiché i democratici capiscono molto bene l’importanza della loro unità, indispensabile per contrastare Trump. Quindi le previsioni sono tutte per la nomina di Harris che non ha suscitato entusiasmo da parte dell’ex presidente. Come spesso fa, le spara grossissime. In uno dei messaggi ha dichiarato che dovrebbe essere risarcito dai democratici perché gli hanno cambiato l’avversario. La campagna di Trump era tutta concentrata su un presidente “vecchio ed incapace” ma adesso le sue accuse si applicano proprio a lui. All’età di 78 anni Trump sarebbe il più vecchio candidato presidenziale nella storia americana. Alla convention repubblicana questi segnali si sono visti mentre lui si appisolava durante i discorsi come aveva anche fatto nel tribunale di Manhattan durante il processo.

Tutto fa pensare che il candidato repubblicano dovrà cambiare strategia e in un certo senso ricominciare daccapo anche se non completamente. Trump cercherà di legare Harris a ciò che lui dipinge come un mandato democratico disastroso. I dati però ci dicono un’altra cosa. L’economia sta andando bene, il tasso di disoccupazione è basso, e gli indici in borsa sono ai massimi storici. L’unica “macchia” è l’inflazione dovuta alle spese forse eccessive per fare rinascere l’economia dopo la crisi causata dal covid.

Nel 2008 gli Stati Uniti hanno fatto storia eleggendo a presidente Barack Obama, un afro-americano e poi rieleggendolo nel 2012. Kamala Harris ha già fatto storia poiché è la prima donna e la prima afro-americana a divenire vice presidente. Si sottolineerà la storia ancor di più nell’elezione di novembre con la prima donna e prima afro-americana a presidente? Rimaniamo sintonizzati.

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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della  National Association of Hispanic Publications.

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