Giuseppe Marotta*

Il drenaggio di risorse umane dalle aree interne verso le aree urbane e costiere e verso le grandi città del Nord rappresenta un processo storico che viene da lontano, che ha accompagnato tutte le diverse fasi dello sviluppo del nostro paese, con un’accelerazione nel secondo dopoguerra e un consolidamento nei decenni successivi. Ad alimentare questi flussi in partenza, oggi, sono prevalentemente giovani laureati e con alte qualificazioni. E la loro crescente consistenza ha fatto crescere in maniera preoccupante i livelli di invecchiamento nelle aree di partenza, con conseguenti drastici cali delle nascite.

Il fenomeno del calo delle nascite, in verità, riguarda l’intero paese e l’Occidente ma nelle aree interne è estremamente grave perché va ad influire sul futuro di un contesto territoriale già molto fragile. Ovviamente andrebbe fatta una riflessione sull’assenza, o sull’inconsistenza, di una politica per la famiglia e per la genitorialità, per invertire una tendenza, che mina il futuro del paese. Ma questo è un altro tema che rimandiamo ad altra sede.

Ritornando al tema delle aree interne, i processi appena richiamati determinano una crescente tendenza alla “desertificazione economica e sociale” che indebolisce il contesto territoriale in tutti gli elementi vitali. Indebolisce anche le capacità delle classi dirigenti locali, chiamate peraltro ad affrontare sfide sempre più impegnative ma con risorse e capacità sempre minori. Le politiche di sviluppo locale, basate su logiche di promozione e gestione dal basso che presuppongono un attivismo e un protagonismo degli attori locali, trovano in questa debolezza un vincolo sostanziale, non facile da superare senza un fondamentale apporto esterno non solo di risorse finanziarie, ma soprattutto di capacità tecniche. Di questo fabbisogno, purtroppo, c’è ancora poca consapevolezza nel nostro paese. Si continua, infatti, a parlare solo di risorse finanziarie, che il più delle volte vengono solo parzialmente utilizzate, in un quadro di sostanziale inefficacia.

Se questo, in estrema sintesi è il quadro economico-sociale-istituzionale delle aree interne, dobbiamo dire che la situazione nelle aree urbane e costiere non appare sostanzialmente migliore. Attingendo ad una metafora dell’antica Grecia, possiamo dire che se “Atene piange” (Aree interne), “Sparta non ride” (Aree urbane e costiere). Queste ultime, per decenni, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, hanno rappresentato il motore dello sviluppo del paese, hanno determinato tendenze, stili di vita e di consumo, facendo crescere il livello di benessere del paese. Nel lungo periodo, questo modello “locomotiva” sta, però, mostrando diversi limiti che pregiudicano l’equilibrio economico sociale dell’intero paese.

Nelle aree urbane e costiere oggi si concentrano le principali criticità che la società è chiamata a fronteggiare: una forte concentrazione della produzione di rifiuti; una crescente congestione di mobilità; diverse forme di inquinamento ambientale; elevati livelli di emissioni di CO2; squilibri nel mercato del lavoro. A questi fattori di criticità, si aggiunge la “velocità” come categoria dominante di tutte le forme relazionali urbane, rendendole fluide, instabili e incerte e generando, così, disagi e sofferenza, con riflessi negativi sulla qualità della vita dei residenti e sul loro benessere.
Siamo, quindi, di fronte a una doppia insostenibilità: insostenibilità da rarefazione delle aree interne e insostenibilità da concentrazione delle aree urbane e costiere. Sono due facce della stessa medaglia. Questo è il motivo per cui non si può considerare la questione delle aree interne in una mera visione localistica.

Il tema aree interne è un tema nazionale che rientra nella più generale politica di riequilibrio territoriale dello sviluppo.
Ma se il modello “urbano-centrico” mostra limiti e insostenibilità in ogni parte del paese, perché i giovani delle aree interne, soprattutto del Sud, continuano a partire in direzione delle blasonate città del Nord (Milano, Bologna, Torino)? Citta dove, peraltro, l’elevato costo della vita rende gli stipendi insufficienti, richiedendo spesso un supporto continuo delle famiglie di origine.

E’ evidente che ad agire sulla spinta verso le aree urbane e costiere sia anche, e forse soprattutto, un fattore culturale. Il mainstream economico, sociale e culturale ha costruito storicamente un immaginario collettivo che configurava i poli sviluppati come luoghi di opportunità e di auto-realizzazione, mentre le aree in ritardo come luoghi di arretratezza, di scarsità da ogni punto di vista. Questo ha dato luogo, in queste ultime, a modelli di sviluppo esogeni, imitativi, che col tempo sono risultati inefficaci. Così, intere generazioni sono cresciute pensando ad un’unica via di uscita dall’arretratezza, quella della partenza senza ritorno, per chi ovviamente ne aveva, e ne ha, le possibilità.

Questa narrazione va cambiata. La situazione non è più quella del dopoguerra e dei decenni successivi. Bisogna educare i giovani alla bellezza delle aree rurali e interne, delle proprie risorse storico-culturali, delle risorse naturali, degli stilli di vita e relazionali propri delle aree, cosiddette in ritardo. La felicità non è correlata al PIL ma a relazioni personali e sociali lente e dense, nelle quali ognuno trova un senso della vita e una propria piena realizzazione. La folla e la velocità delle aree urbane (al alto PIL) generano disagi e solitudine; mentre la socialità delle aree interne (a basso PIL), è densa e solidale e dà certezza, stabilità e felicità.
Costruire la “cultura delle radici” non vuol dire frenare, essere contro alla mobilità. Anzi, è molto importante vivere esperienze di mobilità, perché arricchiscono e aprono gli orizzonti. La “narrazione positiva” deve trasferire una “visione dei propri territori di origine” più realistica e veritiera, contestualizzata storicamente, per cui la mobilità non deve essere vissuta come l’agognata “fuga dall’inferno” ma come un’occasione di crescita che non deve per forza essere poi valorizzata solamente, e per sempre, lontano dalle proprie radici, ma volendo può trovare nel ritorno una forma di realizzazione personale positiva e soddisfacente, ancora più appagante.

In definitiva, le strade da percorrere dovrebbero essere due. Da un lato, inserire la questione “aree interne” nel quadro di una politica di riequilibrio territoriale nazionale, nella consapevolezza che lo sviluppo territorialmente diffuso fa bene soprattutto alle aree urbane, oggi insostenibili per eccesso di concentrazioni plurime. Avendo anche presente, che nelle politiche di sviluppo locale, soprattutto nei territori depauperati e fragili, le risorse finanziarie sono una condizione necessaria ma non sufficiente; queste aree hanno bisogno di un forte impegno nel potenziamento delle capacità (l’Unione Europea parla di capacity building), anche con significativi apporti esterni. Dall’altro, il nostro paese necessita di una sostanziale ridefinizione culturale per uscire dagli stereotipi del mainstream, superati dalle fenomenologie del presente.

Non si può continuare a raccontare una visione storica facendo finta che il presente non sia arrivato e, soprattutto, ignorando la visione nuova della realtà di cui il presente è portatore. C’è bisogno di un cambio sostanziale di narrazione che deve partire dai processi formativi di base e continuare nella costruzione di un rinascimento culturale diffuso in tutti gli strati sociali. Far finta che ciò che accade nelle aree interne interessi solo una porzione minoritaria della popolazione è un atteggiamento miope e sbagliato. Il futuro nelle aree interne arriva prima, ma poi si diffonde in tutte le altre realtà territoriali.

*Pro-Rettore Università del Sannio Ordinario di economia agroalimentare e Sviluppo rurale. Ha recentemente coordinato il rapporto Aree Interne, realizzato dall’Università del Sannio, in collaborazione con Confindustria regionale piccole imprese.

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