L’ editoriale del direttore Daniela Piesco 

La “rivoluzione passiva” è un concetto chiave nella teoria politica di Antonio Gramsci, utilizzato per descrivere un tipo di trasformazione sociale e politica in cui i cambiamenti avvengono senza una mobilitazione attiva delle masse popolari.

Gramsci lo impiega per analizzare processi storici in cui il cambiamento non avviene attraverso una rivoluzione diretta e aperta, ma piuttosto come un processo graduale e controllato dall’alto e spesso senza sconvolgimenti radicali .

Per intenderci Il contrario di «rivoluzione passiva» è la «rivoluzione integrale», cioè l’«irruzione delle masse nella storia», il protagonismo popolare, la voce dei subalterni.

Davanti alla sconfitta rappresentata dal fascismo, Gramsci, in carcere, rifletteva sulle ragioni che hanno determinato la crisi profonda degli stessi apparati e dei valori legati al liberalismo moderno e il contestuale prevalere di posizioni barbariche laddove si pensava che ormai dominassero l’alta cultura, il progresso, la civiltà e i diritti civili.

Gramsci aveva capito che la forza del fascismo risiedeva proprio nella capacità di assumere elementi di modernizzazione provenienti dai settori sociali più avanzati e allo stesso tempo di sterilizzare la partecipazione popolare.

Le caratteristiche fondamentali della rivoluzione passiva schematicamente sono:

Riforme dall’alto: Il cambiamento è gestito dalle élite, che implementano riforme per prevenire o neutralizzare un’insurrezione popolare o per preservare il loro potere, piuttosto che a seguito di una pressione dal basso.

Integrazione delle forze popolari: Le classi dominanti cercano di integrare alcune richieste o elementi delle classi subalterne per cooptarle, evitando così un conflitto diretto.

Mantenimento dello status quo: Anche se possono avvenire cambiamenti significativi, l’obiettivo della rivoluzione passiva è mantenere il sistema di potere esistente, evitando una rottura radicale.

Tutta questa premessa per mettere in luce che la cd «transizione energetica» non è altro che una rivoluzione passiva.

Perché?

Perché in effetti la transizione è soltanto tecnologica, ma non è politica: il metodo attraverso cui essa viene imposta dai vertici dello Stato italiano (a prescindere dai Governi) rende passivi i subalterni e i loro territori che sono poi coloro i quali subiscono maggiormente gli effetti traumatici e violenti di questo cambiamento.

Come il fascismo.

La “rivoluzione energetica” non è affatto un processo di trasformazione delle modalità della produzione di energia, ma costituisce un enorme processo rivoluzionario passivo in senso politico che si basa sul rafforzamento in senso elitario e corporativo delle élites politiche e su una contestuale marginalizzazione crescente delle comunità, delle periferie, dei territori fragili e subalterni.

In effetti il cambiamento epocale che stiamo vivendo e che purtroppo stiamo subendo, è speculare al Fascismo, cioè rappresenta una modernizzazione senza coinvolgimento dei subalterni (persone, comunità, territori sacrificati), una rivoluzione (tecnologicamente parlando) senza rivoluzione cioè senza alcuna partecipazione e coinvolgimento popolare.

A ben guardare se ,spogliata del suo connotato ideologico e propagandistico e riconducendola ai suoi elementi di realtà, la transazione energetica è una epocale ristrutturazione (capitalistica) da un sistema di produzione ad un altro, ma questo non implica alcuna transizione politica da un sistema verticista ad uno di democrazia energetica. Anzi, con la “transizione energetica” viene garantito, e per molti versi rafforzato, l’elemento verticistico, padronale e coloniale e, soprattutto, restano inalterati o addirittura peggiorano, i vincoli di subalternità coloniale tra centri decisionali e periferie sottomesse.

Così viene polarizzato il conflitto in corso tra forze del bene (quelle che vogliono le rinnovabili) e forze del male (quelle che lottano contro le rinnovabili).

Ed eccoci giunti in Sardegna dove a completare la manipolazione funzionale a presentare la “conversione energetica passiva” in nuova “ecologia sociale” buona in assoluto, si fa ricorso alla domanda “Cosa dice la scienza?” e al fatto che “L’isola sia fiamme”

La scienza però dice tante cose. Dice che «la Sardegna è molto lontana dall’abbandono del fossile» perché «il 75% della corrente è ancora prodotta coi combustibili fossili», ma dice anche che oggi l’ isola esporta il 40% di energia e questo non glielo ha certamente ordinato il medico. Insomma, il livello di inquinamento da carbone e fossili è alto anche perché qualcuno ai piani alti ha deciso che la Sardegna deve essere la caldaia della penisola e che deve esportare energia.

In sintesi queste , come si può facilmente immaginare , sono questioni politiche, non tecniche o scientifiche, che nessuno scienziato può risolvere restando sul piano della mera discussione tecnico-scientifica.

La seconda gherminella è l’utilizzare l’immagine del fuoco per sminuire e delegittimare la protesta. Si avanza l’idea che i movimenti popolari contro la colonizzazione energetica siano insensibili all’annoso dramma che i sardi vivono ogni estate da più di un secolo (ne parlava addirittura Gramsci nei suoi articoli, ben prima del riscaldamento globale!)

Si legge sui giornali :«L’aumento delle temperature e l’arrivo della stagione degli incendi non hanno fermato le proteste. Anzi, nelle ultime settimane la tensione sull’isola è salita. Sulla costa est gli espropri per la costruzione dell’elettrodotto hanno trovato l’opposizione di centinaia di attivisti».

Come a dire: non si fermano neanche con i roghi, sono attivisti ma un po’ decerebrati questi poveretti.Vanno in piazza a prendere le botte senza neanche sapere il perché.

Nemmeno una riga o poche molte poche , sul rapporto tra fabbisogno energetico della Sardegna e quote assegnate d’imperio alla regione stress e nessuna riflessione sulla prospettiva neo coloniale che pretende di trasformare l’isola in una piattaforma di produzione energetica quasi totalmente funzionale alle esigenze del continente e alle logiche speculative e di profitto delle multinazionali.

A parte i colori politici, dai quali ribadisco la mia distanza politica e il mio dissociarmi, la priorità delle proteste è fermare la colonizzazione e rendere noto allo Stato italiano che la Sardegna non è più una sua colonia, ma una Regione abitata da comunità che sanno dire di no e che esercitano i loro poteri sovrani per far valere i propri diritti.

Ciò che ora davvero conta sarebbe mostrare la roncola al nemico e dimostrare che non è possibile subire l’ennesimo processo coloniale senza reagire,perché il tempo delle modernizzazioni calate dall’alto e delle rivoluzioni passive è finito per sempre

E da questo punto di vista merita un accenno per non dilungarmi troppo la Pratobello 24 che è il più grande strumento di protagonismo, partecipazione, soggettività popolare che si ha a disposizione e non metterlo in valore sarebbe poco furbo e perfino un po’ sospetto.

Le motivazioni per cui bisognerebbe appoggiare questa proposta di legge di iniziativa popolare stanno prima di tutto nel nome: “iniziativa” e “popolare” che sono due concetti fondamentali e rappresentano l’unico vero antidoto alla postura disciplinare, autoritaria, impositiva che assume oggi la Rivoluzione Passiva

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