Ancora una volta, dopo l’ennesimo scandalo politico, che questa volta ha coinvolto un ministro del governo Meloni, chiaro segnale dell’impasse in cui è venuto a trovarsi di recente l’Esecutivo, televisione e giornali sono tornati a parlare delle élites immutabili, eterno problema del nostro Paese con due diverse analisi dell’attuale quadro politico.
La prima si sofferma sull’imborghesimento e sul conseguente distacco della sinistra dalla sua base tradizionale; la seconda analizza il sentimento di ostilità e malcelata rivolta di vasti strati dell’elettorato contro le élites, identificate con la globalizzazione, il multiculturalismo, l’immigrazione, il politicamente corretto. Entrambe le analisi evidenziano un sempre più diffuso sentimento di avversione verso una ristretta cerchia di persone in grado di condizionare la politica, che porta come riflesso condizionato al populismo.
I governi a forte impronta popolare e quanti hanno soldi e potere naturalmente confliggono, ma la storia che ha approfondito questo antagonismo ha anche chiarito come le moderne società non possono funzionare senza questi gruppi di potere, definiti élites, purché non siano del privilegio o della nascita, ma del merito.
Purtroppo non è il caso del nostro Paese. Infatti negli ultimi trent’anni, complici tre fattori come il ristagno economico, la cronica mancanza di sviluppo del Mezzogiorno, la crisi sistematica del nostro sistema scolastico e universitario, aggravato oggi come non mai dalla recente pandemia, nessun ricambio significativo c’è stato, anzi le cosiddette élites, hanno manifestato un carattere sempre più ereditario.
Ovunque il titolo preferenziale per accedere al pubblico impiego o ad altri settori non è una laurea o i meriti acquisiti nel campo lavorativo, ma l’appartenenza ad una precisa classe sociale, quindi è un titolo ereditario-familiare. E ciò accade nelle università, nella magistratura, nella diplomazia e via discorrendo.
Bisogna anche dire che non sempre il merito è assente, ma è sempre più presente la possibilità di affermarlo solo se le condizioni familiari di partenza lo consentono; sovente esse sono il solo titolo preferenziale.
In questa disamina va però ricordata l’antica avversione, tutta italiana, per la competizione e la trasparenza, unita all’altrettanto antica disposizione a privilegiare le relazioni sociali sulle competenze, a totale svantaggio degli strati piccolo-borghesi e meno favoriti dal benessere, e a vantaggio, invece, degli strati più alti della società consentendo ai più capaci e intelligenti di guidare per oltre trent’anni il nostro Paese.
Il risultato non ci conforta, perché sempre meno possiamo contare su quella risorsa rappresentata dalla brillante genialità italiana, così spesso presente nella nostra storia. Da quanto finora rilevato, deriva la natura sostanzialmente chiusa, iperomogenea, autoreferenziale di questi gruppi di potere, con tre caratteristiche che sono: a) l’età avanzata, b) la scarsa presenza di donne, c) la provenienza ideologica di centro-sinistra, requisito indispensabile quest’ultimo per essere ammessi ai vertici della politica.
In ultimo, conformismo, carrierismo, ostilità ad ogni cambiamento, riluttanza a prendere decisioni importanti o impopolari. In sintesi, ci troviamo di fronte ad un’oligarchia vera e propria. E questo spiega il vasto sentimento di avversione che oggi, come ieri, suscita in molti.