Il trasferimento di Raffaele Fitto a Bruxelles solleva dubbi, soprattutto in relazione alla gestione incompleta del Pnrr, segnato da ritardi e inefficienze strutturali. Nonostante i successi diplomatici ottenuti con la Commissione Europea, l’Italia ha speso solo una parte dei fondi e molti progetti, soprattutto al Sud, rimangono incompiuti. La partenza di Fitto potrebbe aggravare una situazione già critica, compromettendo la possibilità di raggiungere gli obiettivi del Pnrr entro le scadenze previste.
C’è qualcosa che non ci convince nel trasferimento di Raffaele Fitto dal Governo di Roma a quello di Bruxelles, tanto più con l’incognita delle deleghe che riceverà, e in ogni caso avrebbe bisogno di un consenso bipartisan più ampio (il più svelto per ora è stato il solito Matteo Renzi).
Quel che non ci convince, lo diciamo subito, non è la capacità del candidato.
Diventato Ministro di questo Governo dopo un cursus già molto ricco di soddisfazioni (e anche di sconfitte, che sono sempre pedagogiche), Raffaele Fitto è stato tra i più dignitosi collaboratori di Giorgia Meloni, dentro un gruppo complessivo di inadeguati, pasticcioni o velleitari deludenti (individui ciascuno il Ministro corrispondente).
Non è comunque parte della scadente classe dirigente di Fratelli d’Italia, non ha frequentato né Colle Oppio né i tortuosi sentieri post missini di un Gennaro Sangiuliano. E’ di genuina scuola democristiana, quella che sempre più spesso è rimpianta anche da chi ha tanto avversato le meline dello storico Scudo Crociato.
Per Dna familiare, l’uomo di Maglie è nato e cresciuto dentro quella greppia e, come tanti, ha abbracciato Forza Italia quando la Dc è morta, scegliendo la brutta copia dell’originale. Ma è un democristiano coraggioso, perché non deve essere stato facile il salto successivo tra i Fratelli meloniani. Il concittadino Aldo Moro deve essersi più volte rivoltato, ma a Maglie le capacità di mediazione sono evidentemente nell’aria (è passata da qui persino la prima elezione di Pierferdinando Casini nella seconda Repubblica), perché è in questo che Fitto è stato particolarmente bravo.
E’ proprio l’efficacia dimostrata nel rapporto con la Commissione Europea che ci fa pensare che sarebbe stato più utile per il nostro Paese una continuità dell’incarico. Tra i veri vantaggi di un Governo quinquennale, c’è la possibilità di mantenere incarichi come questi che durano negli anni, e possono cosi produrre consuntivi nel bene e nel male molto più chiari.
Vero è che potrebbe esercitare questa capacità anche direttamente nella dimensione europea, ma operare come un ambasciatore italiano è contro lo spirito delle istituzioni europee, per di più con gli occhi addosso di 26 Paesi che non dimenticheranno il voto contrario, o comunque diffidenti per l’impressione che tra Von der Leyen e Meloni sia stato organizzato un gioco delle parti al momento della designazione.
Il buon lavoro di mediazione svolto in due anni da Raffaele Fitto – chiariamolo bene – non riguarda però i contenuti, perché lo stato di attuazione del Piano, per la verità, fa acqua da tutte le parti, e bisognerebbe cominciare a dirlo, fidandoci delle rilevazioni di osservatori indipendenti, come ad esempio Openpolis.
Come sia riuscito, Raffaele Fitto, a scucire fin qui il 58% e passa dell’intero contributo europeo, convincendo Bruxelles che ben 269 obiettivi siano stati davvero raggiunti (ma ne mancano 349 e il tempo rimasto è poco) è motivo di meraviglia. Malignamente vien da pensare che uscire adesso, a record acquisiti (gli altri Paesi europei sono tutti indietro), sia una bella pensata, scaricando su altri un consuntivo che si teme diverso.
E non dimentichiamo che Fitto ha segnato di recente anche un altro eurogoal. Solo un mago di origini levantine poteva portare a casa il consenso su un ennesimo e deplorevole rinvio dell’attuazione della direttiva Bolkeistein, che è del 2006, e ora dovrebbe slittare al 2027. Non ci avremmo scommesso, perché le furbizie italiane sono state troppe volte denunciate da sentenze a tutti i livelli di controllo.
Il tentativo recente di togliere dal tavolo almeno alcune – questa la più vistosa – tra le infrazioni tricolori (che sono 72, con multe già fioccate per 130 milioni di euro, ma nessuno si indigna nel paese degli scontrini ridicoli) potrebbe aiutare il lavoro del futuro Commissario italiano, ma non superare un imbarazzo, dato che l’Italia è da sempre in cima alla classifica europea delle infrazioni comunitarie.
C’è comunque un forte divario tra i compromessi politici realizzati e le cose fatte, anche se oggettivamente per un Ministro, le capacità di mediazione e convincimento sono il primo requisito. Tutto il resto – burocrazia, ritardi, sprechi – sono da addebitare ad un sistema, quello italiano, che non a caso è al 64° posto nel mondo per inefficienza, secondo il Global Attractiveness Index.
Ma lo spirito del NGEU nella generosità dimostrata verso l’Italia era proprio quello di finanziare la correzione di certi nostri difetti genetici e se tra i progetti previsti in quegli obiettivi “raggiunti” uno su 3 è oggi in ritardo, si tradisce la regola base del primo grande tentativo di debito comune, e cioè che non valgono i cantieri aperti, valgono i cantieri chiusi, a cominciare da quelli delle riforme di accompagnamento, sovvenzionate ad hoc. E’ lo stesso metodo del nuovo Patto di stabilità.
I dati parlano chiaro, stando all’impietosa analisi fatta da uno studio dell’Osservatorio “The European House-Ambrosetti”. Presi in sé e per sé gli obiettivi Pnrr sono già falliti e non dimentichiamoci che a consuntivo è previsto che i soldi incassati e non utilizzarti, tornino indietro!
Manca poco alla fine, per ora dichiarata non rinviabile, della validità della Grande Sovvenzione
ma un conto è ricevere e un conto è spendere (e ancor più spendere bene). Eravamo, a metà 2024, solo al 26% di tutto ciò che dovrà essere consuntivato nel 2026. Sempre quest’anno avremmo dovuto muovere in cifra assoluta 43 miliardi di euro, ma – in base alla velocità media di spesa – il 31 dicembre andrà bene se ne avremo spesi 18,6, meno della metà. Se si guarda alle grandi missioni del Pnrr, quella più negletta è quella sociale: 8% della spesa per “inclusione e coesione”. Neppure raddoppiando lo smodato budget della missione albanese, riusciremo a salire. Ed è povera di risultati concreti la battaglia più importante, quella delle transizioni ambientali e digitali. Lo studio evidenzia inoltre la scarsa innovazione rispetto ai tradizionali difetti e scompensi italiani: c’è il Nord che primeggia (44%) e il solito Sud in coda con il 31%, con una spesa prevista ben sotto il 40% obbligato. Per non parlare dei Comuni, che avevano presentato ben 216 mila progetti, e se ne sono visti confermati solo 55 mila, ed ora sono con il cerino in mano di promesse non realizzabili o di cose già fatte ma senza copertura. I comuni si sono fidati della promessa di Fitto di trovare altri soldi, ma non sarà di nuovo solo l’exploit di un affabulatore?
La controprova della finora non riuscita del Pnrr sta nell’andamento dell’economia. Era stato calcolato che l’effetto di una spesa straordinaria di oltre 190 miliardi (più 30 nazionali di accompagnamento ma li stiamo riducendo per fare tornare i conti ordinari di bilancio), avrebbe dovuto produrre un incremento Pil dell’1,9%. Allo stato delle cose, con forse l’1% di crescita previsto quest’anno e meno nel prossimo, l’apporto Pnrr è in grado di nascondere il solito zero virgola dei nostri conti, ma è del tutto mancante l’effetto moltiplicatore che doveva esserci. E questo sempre perché un conto è ricevere e un conto è immettere soldi nel circuito di crescita.
Passando ora Fitto dall’altra parte della barricata non è detto che siano garantiti risultati migliori.
Peggio ancora sarebbe se Giorgia Meloni, terrorizzata da un eventuale rimpasto, preferisse il trasferimento dei poteri attuali di Fitto a sottosegretari e direttori generali, o improvvisatori che non conoscono i segreti della materia.
La partita Pnrr, insomma, è davvero troppo importante, per considerare normale l’uscita di chi l’ha gestita fin qui, ed è meglio che si assuma fino in fondo la responsabilità di arrivare alla fine.
*Info Beppe Facchetti
Beppe Facchetti è stato deputato al Parlamento e responsabile economico del PLI. E’ attualmente vicepresidente di Confindustria Intellect, che federa le associazioni della comunicazione e della consulenza.
Ha sempre lavorato, in aziende, associazioni e istituzioni, nell’ambito della comunicazione d’impresa, materia che ha insegnato all’Università di Perugia e attualmente di Milano. Editorialista di politica economica per “L’Eco di Bergamo”, ha ricevuto nel 2015 la medaglia dell’Ordine per 50 anni di attività pubblicistica. Già membro della Giunta esecutiva dell’ENI, vicepresidente di Sacis Rai, ASM Brescia. Consigliere comunale, provinciale di Bergamo, candidato alla presidenza della Provincia per il centrosinistra.