L’articolo 27 della Costituzione italiana dice:
La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
Il carcere italiano, nella situazione attuale, rieduca davvero? Ed il senso di umanità permea ancora l’ambiente carcerario?
Nelle carceri italiane il numero dei detenuti è quasi il doppio dei posti disponibili. Stipati uno sull’altro. Il personale è sotto organico e le condizioni di lavoro pesanti aumentano disagio e tensione. In questa situazione viene fortemente intaccata anche la dignità e l’umanità delle persone detenute. E le persone che dovrebbero iniziare un percorso graduale di reinserimento nella società, restano sempre più spesso rinchiuse nelle celle a far poco o nulla. E lì aumentano problemi psichici e fisici, con le conseguenze catastrofiche di cui negli ultimi tempi sentiamo parlare sempre più spesso.
D’altro canto la società ha pieno diritto di pretendere più sicurezza. Ma parcheggiare i detenuti in celle invivibili e togliergli ogni dignità, non favorire il reinserimento sociale, non rieducarli alla convivenza civile, contribuisce davvero alla sicurezza?
Ad oggi si è superato non solo la capienza regolamentare delle carceri, ma anche quella ritenuta dal Ministero della Giustizia “tollerabile”. E le previsioni parlano di aumento esponenziale di “tempo inutile”, perché manca il personale, mancano attività lavorative, mancano spazi, mancano strumenti.
A cosa serve la detenzione se chi che ha commesso un reato esce di galera, spesso, peggiore di come ci è entrato? A ben riflettere forse “sbattere in galera e buttare la chiave” non è sempre la soluzione migliore per chi viola la legge.
Certo è necessario fare un distinguo sul tipo di reato commesso, ma lo è ancor di più distinguere chi e perché ha commesso il reato. E da lì modulare la pena e la sua esecuzione.
Perchè se è vero che chi commette un reato deve scontare una determinata pena, è altrettanto vero che se chi lo ha commesso è un tossicodipendente o un alcolista, l’esecuzione della pena non può essere la stessa. Per certi soggetti il carcere diventa un luogo dove l’abuso di psicofarmaci ed antipsicotici è unico mezzo di sopravvivenza, con conseguenze devastanti sulla salute sia fisica che mentale. Problematiche che diventano quasi insormontabili tra le mura carerarie. Se per noi liberi è oggi complicato usufruire del servizio sanitario, per i detenuti è impresa titanica. E la situazione e diventa insostenibile.
E se il sistema non offre strutture adeguate, se non si stanziano risorse, se i percorsi non sono adeguatamente organizzati, se il controllo non è costante, questi soggetti non si recupereranno mai. E il rientro nel tessuto sociale sarà anche peggiore di prima. Usciranno dal carcere persone non riabilitate, debilitate nel fisico, nonchè piegate nel morale, che saranno semplicemente distrutte nella salute e nella dignità. La pena limitativa e privativa della libertà personale deve sì colpire la libertà personale, ma deve anche salvaguardare tutto ciò che non è necessariamente connesso a un regime detentivo: tutto ciò che esso consente deve essere consentito, anche in funzione di quella finalità rieducativa tanto sbandierata, che se fa comodo enunciare, non può diventare scomodo cercare di realizzare. I diritti umani basilari vanno salvaguardati e garantiti, altrimenti siamo destinati ad un imbarbarimento che investirà tutta la società, oltre alle carceri.
La legge prevede e consente di applicare le misure alternative alla detenzione, che potrebbero e dovrebbero portare allo svuotamento delle carceri, evitare il sovraffollamento, e consentire a chi collabora con convinzione e volontà di riabilitarsi e reinserisi a pieno titolo nella società . Ma anche qui ritornano gli stessi problemi. Concedere ad un tossicodipendente o ad un alcolista di andare in comunità senza un controllo ed un percorso adeguato, significa solo offrirgli un’occasione ghiotta per tornare a delinquere. “L’occasione fa l’uomo ladro”, se serve per procurarsi una dose o l’alcol, ancor di più. E violare le prescrizioni in misura alternativa significa rientrare in carcere, non poterne più usufruire, con la conseguenza di ritrovarlo, all’uscita, di nuovo e sempre, a delinquere.
Servono risorse umane e finanziarie, strumenti, strutture adeguate, perché il sistema funzioni e rieduchi davvero.
Il carcere non serve per chi sta male e avrebbe bisogno di essere curato, per chi ha problemi con la droga, per chi è giovane e potrebbe essere aiutato con pene diverse dalla detenzione, piuttosto che parcheggiato in un luogo “intollerabile” come le attuali strutture carcerarie. Salvando qualche singola realtà che con enormi sforzi di tutti coloro che ruotano intorno ad esso, dalle istituzioni al volontariato, nonostante tutto, riescono ad offrire un barlume di speranza a chi vi è rinchiuso.
Il carcere serve e raggiunge il suo scopo quando è previsto per chi costituisce realmente un pericolo per la società.
L’articolo 27 della Costituzione ci fornisce la più moderna soluzione ai problemi della sicurezza: una pena che abbia un senso e che dia speranza. Non dimentichiamolo, applichiamolo.
Inasprire le pene senza riorganizzare il sistema carcerario ed investire sulla rieducazione comporterebbe un inevitabile aumento della criminalità, senza risolvere i problemi a monte.
Se così non sarà, le istituzioni non avranno adempiuto al loro compito ed il carcere avrà fallito il suo scopo.
* Antonia Francesca è Avvocato, Criminologo forense esperta di omicidio seriale e pedofilia.Magistrato Onorario presso Trib. di Sorveglianza di Napoli.
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