Per te ho attraversato il tempo, vinto la morte, abiurato Dio. Per te amore, per poterti ritrovare.
Bram Stoker, Dracula
Scusate se per un attimo torno alla telenovela Sangiuliano-Boccia, fattasi tormentone più serio che faceto, ma mi serve come premessa. Debbo per prima cosa dire che la videointervista per Elle di Geppi Cucciari, una ok e di sinistra, mi fa molto più pena della non consulente di un ex ministro che se la squaglia per paura da Cartabianca, dove fiuta aria di tranello. Per inciso da Bianca Berlinguer.scappano tutti: la Maria Rosaria, Mauro Corona, il prof Orsini per cui fra breve ci sarà solo lei sullo sgabello.
Torniamo alla Geppi invece, osannata e da osannare perché ridicolizza ministri (senza troppa fatica in verità), guarda un punto fisso davanti a sé, abbassa il tono della voce e riflette sul modo in cui gli altri la guardano. «Temo sempre che la gente possa pensare che io sia solo quella che vede in tv, ignorando che la sostanza è molto più complessa di un modo di essere», dice dalla finestra di Zoom aperta nel giardino della sua casa vicino a Olbia, con i parenti che ogni tanto saluta al di là dello schermo e con gli occhiali da sole che terrà dal primo all’ultimo istante, come una coperta di Linus.
Almeno la Boccia (signora non dottoressa, come dice il marito con il quale è ancora tecnicamente sposata, ma anche Alessandro Giuli, attuale ministro della cultura non lo è) e l’ex ministro Sangiuliano (che invece una laurea ce l’ha) fanno sentire tutti gli italiani superiori: gli uomini sono tutti più alti e intelligenti di lui, le donne sono tutte più leali ed eleganti di lei. Tutti insieme, però, sono un popolo di guardoni inferociti, degli autentici vampiri.
Qualcuno più in alto di me avrebbe dovuto ripetere le parole di Cristo: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Dov’è il maschio di ben protesi nervi che non gradisce le attenzioni di una bella femmina?
Io non sono inorridito dal branco assetato di sangue che ha circondato, e atterrato, Sangiuliano, ma inorridisco perché non vi è stato nessuno del suo partito e del governo che lo abbia difeso (tranne la Santanchè, che però ha già le sue gatte da pelare e comunque dichiara di essere dalla parte della moglie dell’ex ministro). Dov’è quel marito che non si è mai tolto la fede in situazioni promettenti? Se questi maschi e questi mariti esistono sono dei santi e nessun santo gode delle disgrazie altrui. Siamo tutti diventati mariti fedeli nei secoli dei secoli e, per il nostro amore coniugale, abbiamo fatto prodigi come Vlad III detto Drac il sanguinario, il vampiro, che per l’amore coniugale rinunciò persino a Dio?
Riprendendo il mito del vampiro aristocratico, distante dall’immagine presente nel folklore, lanciato nella letteratura da John William Polidori, Stoker realizza un romanzo dalle atmosfere cupe, in cui il terrore e la minaccia assillano i protagonisti, in un crescendo di emozioni che conduce alla scoperta dell’orrore rappresentato dal tetro vampiro, ma al contempo racconta una straordinaria storia d’amore. Coppola lo ha capito e il suo Dracula del 1992 non è un film horror, ma una storia d’amore intensa e infinitamente romantica e passionale, che riesce a far impietosire lo spettatore anche di fronte a un mietitore di morte, perché quando si ama nulla più intorno esiste, e le vicende che si susseguono al fine del ricongiungimento con la propria amata spariscono in un secondo piano privo di rilievo.
“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti” sussurra Drac alla sua amata e bellissima Myna e cosi diviene ciò che Stoker aveva immaginato 90 anni prima: assoluto protagonista, distante dalla dimensione di pura mostruosità di cui era stato simbolo cinematografico da quando il cinema era nato. Non era certamente la prima volta in cui quel mostro terrificante veniva portato sul grande schermo. Anzi, si può dire che il cinema in un certo senso è nato anche grazie a Dracula.
Anno 1922, al cinema Marmorsaal del Zoologischer Garten Berlin, il regista Friederich Murnau presenta il suo Nosferatu il Vampiro, il padre di tutti i film horror, palesemente ispirato a Dracula di Stoker. Violare il diritto d’autore non portò bene a Murnau, la vedova dello scrittore gli fece causa, la sua Prana films dichiarò bancarotta e quasi tutte le copie di quel capolavoro furono distrutte. Quasi (nella Cineteca dell’Istituto Cinematografico dell’Aquila ad esempio ve ne è una). Comunque, ormai il sentiero era stato tracciato e da quel momento di film sui vampiri ne sarebbero usciti a dozzine, di fatto creando un sottogenere horror che ancora oggi impera a livello produttivo, sovente staccandosi dalla classicità per riabbracciare l’identità del film di genere.
Lui, Vlad III di Valacchia, psicopatico nobile rumeno del XV secolo che salì agli onori della cronaca per il fanatismo con cui combatteva gli ottomani, grazie a Coppola però diventò protagonista di una struggente storia d’amore, dopo essere stato il villain in capolavori della cinematografia, interpretato da attori leggendari. Ma prima vi era stato un altro grande e folle visionario a rivedere il mito: Werner Herzog, genio assoluto prosciugato da Hollywood come tanti altri (fra gli ultimi il nostro Muccino che in verità stenta ancora a riprendersi, anche se blatera contro la legge sulla Settima Musa varata dalla destra). Le nostre attrici (le donne per natura fiutano il pericolo) se ne sono scappate a tempo: la Magnani, la Loren e la Lollo e si sono salvate.
Di recente ho rivisto Nosferatu, il film di Werner Herzog del 1979. Il violento candore di quel Dracula è indimenticabile e delinea, credo, l’identità ambigua di chi lo interpreta. Klaus Kinski – pallido, spigoloso, bellissimo – è un uomo che ha fatto copulare gli estremi, ha congiunto ferocia e tenerezza, innocenza e violenza. Attore di folgorante prestanza, tra gli indimenticabili di sempre, Kinski ha vissuto la vocazione del poeta. Lo testimoniano, tra l’altro, i dischi registrati dagli anni Cinquanta in cui KK recita Goethe e Schiller, Dostoevskij, Wilde, Shakespeare e i canti magici africani. Tra tutti, aveva sintonia con il linguaggio di François Villon e di Arthur Rimbaud. “Nelle febbre incalzante, nello strappo e nello squarcio, nell’eccessiva inquietudine dell’anima con cui vuole solcare l’intero mondo, è come Rimbaud, seguace della sua sanguinosa sconfitta, della sua rabbiosa fame di vita, della sua critica incessante al tutto, della sua delusione e della sua lotta per la verità e la giustizia che ancora lo respinge nella desolata solitudine del fuorilegge”, scrive il futuro attore in uno testo autobiografico, Leben bis sommer 1952, che reca in sé la spina di un destino.
Le parole cardinali, in questo scritto, sono febbre e fuorilegge. Come Fieber, “Febbre”, in effetti, sono state raccolte da Peter Geyer, le poesie di Klaus Kinski, la prima volta nel 2001, per Eichborn Verlag, poi nel 2006, per Suhrkamp. I testi – creduti smarriti e fortunosamente ritrovati – sono stati raccolti da Antonio Curcetti, che prima ha allestito un servizio per “Poesia”, la rivista di Crocetti, poi ha fatto da sé, pubblicando, fuori commercio, con il fantomatico marchio “nessuno editore”, Febbre. Diario di un lebbroso. Era il 2018 e Kinski portava già, inciso con il fuoco, il marchio del repellente, del disgustoso, dell’impubblicabile.
Nel 2013 Suhrkamp aveva pubblicato Kindermund, l’autobiografia in cui Pola Kinski accusa il padre di averla violentata, quando era ragazzina. Il libro uscì in Italia per Newton Compton come L’amore di papà; sottotitolo “L’autobiografia choc della figlia di Klaus Kinski”. Klaus Kinski era morto nel 1991, alla fine di novembre, solo, ostracizzato, nella casa californiana di Lagunitas. Da allora, sul corpo-corpus di Kinski agisce la scure di una virulenta damnatio memoriae mentre lui indossa la parte da sempre desiderata, quella del Cristo al contrario, del Cristo-vampiro, maledetto, malvoluto, sputato, dileggiato. Naturalmente, da allora le poesie di Kinski, un tempo documento artistico d’alto pregio, sono latitanti, fuorilegge dai cataloghi degli editori tedeschi di rango. In un verso, Kinski parla del “mio cuore germogliato di bianco”; purezza che fu lucore di lebbra, abbaglio, mania che boccheggia.
Negli anni Cinquanta, Kinski riempì una valigia dei suoi manoscritti poetici – la affidò a un amico – la dimenticò. Era così: un uomo pronto, sempre, a farsi fuori, a morire di molte morti. Come i vampiri, si nutrì dell’altrui morte – si nutre di chi, da morto, continua a ucciderlo. Fra le altre cose scrive Kinski proprio questo in occasione del Grande Silenzio, spaghetti western atipico di Sergio Corbucci (da un’idea di Duccio Tessari, fiorentino e quindi un po’ pazzo), in cui incredibilmente vince il male sul bene, “l’uomo che si credeva Dio e si rivelò vampiro” e lui uccide il buono e muto Trintignant destinato, dal Sorpasso in poi, a morire sempre in Italia.
Nel 1955, a un giornalista di “Film Revue”, disse di aver scritto una raccolta di poesie “senza eguali nel suo tempo”. László Benedek, il regista ungherese di Morte di un commesso viaggiatore, che a Hollywood aveva diretto Marlon Brando ne Il selvaggio, gli aveva appena offerto la prima parte importante, per quanto infima. Kinder, Mütter und ein General (passato in Italia come “All’est si muore”), racconta gli ultimi, drammatici giorni del Terzo Reich. Per Klaus Kinski fu una specie di nemesi: diciassettenne, arruolato nella Wehrmacht, tentò la diserzione; fu arrestato dai britannici nei Paesi Bassi. Imparò lì, in carcere, i rudimenti del teatro, e la diserzione più letale: quella dal sé. La madre, Susanne Eva, era morta durante un bombardamento alleato; il padre, Bruno, farmacista con velleità da tenore, era deceduto in un campo di prigionia, in Cecoslovacchia.
A quell’epoca, Kinski portava un viso apollineo, volitivo, da divinità ferina. Compiva 29 anni, aveva cominciato recitando François Villon, Goethe e Nietzsche; in una delle sue tante, incompiute, autobiografie, “Leben bis sommer 1952”, scrisse di sentirsi un redivivo Rimbaud, “nella sua sanguinosa sconfitta, nella sua rabbiosa fame di vita, nella critica incessante di tutto”. Scrisse di scrivere “più di dieci poesie al giorno”. L’ispirazione poetica, sorta dalle tenebre del secondo dopoguerra, avvelenò Kinski per una manciata di anni, fino al ’56, quando dalla crisalide del poeta sbocciò l’attore, enigmatico, che mesmerizzava gli astanti.
L’acme accadde nel 1949: ridotto in un ospedale psichiatrico, sgangherato dall’elettroshock, Kinski scrive un poemetto di irosa potenza, Irrenhaus, “Manicomio”. Chi parla è l’irredento radiato dal convegno umano, il reietto deragliato dagli sputi (“essi mentivano e scatarravano bava/ sul mio cuore infranto e avvilito/ atomizzavano il tormento del mio spirito/ dicendo d’accarezzarmi l’anima”). In una terzina di orfica intensità, Kinski delinea il proprio destino: “io avevo solo lacerato la mia vita/ gettato il mio corpo tra le vampe/ per sfuggire alla follia degli uomini!”. In sostanza, Manicomio è una specie di infernale via crucis che fonde i toni della sacra rappresentazione medioevale al cupo rombo delle ballate di Antonin Artaud.
Novello Cristo, Kinski è “un maiale sbollentato” alla catena, viene scortato “come un cannibale” mentre “una civetta funesta/ mi pisciava in faccia come un cane/ addomesticato”. Il Cristo/Kinski subisce ogni oltraggio possibile – “io vengo pesato come un tozzo di pane/ trascinato a forza mentre occhi di iena/ valutano il mio corpo malconcio” – mentre avanza l’invettiva contro la viltà dell’uomo: “ah, tutti voi che vivete e al mattino vi risvegliate liberi/ non dimenticate i chiodi che portate nei cuori/ quelli come voi sono fatti per schernire,/ che stramazzi ancora una volta Cristo!”. Più che altro, Manicomio pare la pièce di un mostro, di un dio marziale e carnivoro, creatura solare capace di eclissarsi nel proprio opposto, infantile bandito. Si ode qui, l’incanto di Nosferatu e di Fitzcarraldo, la violenza di Aguirre e di “Cobra Verde”. Agli occhi di Bruce Chatwin, Kinski era per sempre “un adolescente… tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”.
La vicenda delle poesie di Klaus Kinski è nota. All’epoca, l’attore frequentava Thomas Harlan, il figlio di Veit Harlan, regista di Süss l’ebreo, il più noto cineasta del Terzo Reich. I due, negli anni Cinquanta, s’imbarcano come mozzi a Marsiglia, direzione Haifa. Kinski lascia la valigia con i manoscritti a casa di un amico; non tornò più a riprendersela. Riemersi presso una casa d’aste di Monaco nel 1999, i manoscritti lirici di Kinski vengono acquistati da Peter Geyer e trovano una prima sistemazione editoriale per Eichborn Verlag, nel 2001. Cinque anni dopo Suhrkamp pubblica Jesus Christus Erlöser und Fieber: il libro risulta fuori catalogo. Dal 2014 la più importante casa editrice tedesca stampa Kindermund, resoconto autobiografico in cui Pola Kinski racconta di essere stata regolarmente violentata dal padre. Klaus Kinski, così, resta il terrorista della poesia occidentale, un paria alle lettere: nessuno osa pubblicarlo.
In Italia, si prende cura dei suoi testi, con dedizione autenticamente sovversiva, Antonio Curcetti. Nel 2012 ha pubblicato su “Poesia” un servizio, Febbre. Diario di un lebbroso (n. 271; memorabile la copertina, con Kinski giovanissimo, d’efebica ferocia, e corona d’alloro in cranio); poi, nel 2018, per la fittizia “nessuno editore”, pubblica come Febbre un’antologia di poesie di Kinski, fuori commercio. Al samizdat poetico, ha aggiunto, ora, un tassello prodigioso: la traduzione integrale di Manicomio (come sempre, l’edizione è fuori commercio; info: info.nessunoeditore@tim.it). La plaquette è inghirlandata da sovracopertina e da alcune immagini tratte da Der rote Rausch, film di Wolfgang Schleif del 1962, con Kinski che sversa in urla, nella parte del maniaco. Alcuni libri è bene che viaggino così, clandestini, di mano in mano – la poesia, questa cosa così lieve, troppo importante per stare stivata in una libreria, miseria tra altre merci, deve spargersi tra filatteri di candele e coltelli, nei sottoscala, cosa proibita, cibo per massacrati dal mondo, per vitalisti invalidi a questo vivere.
Quando, nel 1971, Klaus Kinski mette in scena un suo testo lirico, Jesus Christus Erlöser, fu un disastro. Alla Deutschlandhalle di Berlino il pubblico lo contesta, lo crocefigge al suo dire, se ne va (non c’entra nulla, ma lo stesso anno lo scrivente se ne va, decide di abbandonare il sogno cinema per studiare medicina). Il tour previsto fu annullato. Mai Cristo fu così demoniaco. Vent’anni dopo, Klaus Kinski morirà in solitudine, da tutti inviso, nella casa di Lagunatis, California. Dicono che fu il cuore a cedere. Non si può vivere ogni giorno come un Rimbaud in estro. “Vorrei uscire per le strade e aiutare la gente, e alleviare il loro dolore”, aveva scritto, ragazzo. Voleva sanare, lui come Nietzsche voleva curare l’uomo e l’umanità, tirare fuori il poeta dal vampiro.
«Gli anglosassoni sono perfezionisti. In America e in Inghilterra c’è una sola parola per descrivere il fallimento, failure, in romeno ce ne sono molte. Forse perché siamo esperti della materia». E se una parola alternativa in italiano c’è, “errore”, questa rimanda piuttosto alla dimensione dell’errare, dell’andare di luogo e luogo, esperienza che Costica Bradatan, filosofo romeno, ha detto di aver fatto più volte. L’accademico, docente di Studi umanistici alla Texas Tech University e professore onorario di Filosofia all’Università del Queensland, in Australia, ha presentato il 7 settembre scorso a Mantova il suo Elogio del fallimento. Quattro lezioni di umiltà (Il Saggiatore), incentrato su quattro figure: Simone Weil, Gandhi, Emil Cioran e Yukio Mishima. Tutti personaggi che non ci si aspetta di vedere rubricati tra i perdenti, ma che hanno messo il fallimento al centro della loro riflessione e lo hanno testimoniato con le loro vite. Un libro per certi versi simile a Morire per le idee, uscito nel 2017 per Carbonio e dedicato da Bradatan ai “filosofi martiri”. In qualche modo anche loro dei falliti. Con Bradatan protagonista dell’incontro “Errare è umano”, tenutosi nella cappella palatina di Santa Barbara, è stato il filosofo di Trento Paolo Vanini, esperto della terza figura, Cioran, il grande pessimista romeno esule a Parigi. Ecco allora che non possiamo non notare che Klaus Kinski appartiene a questa gloriosa schiera di falliti redenti dalla propria vita.
Nel corso di un recente dibattito quando a Bradatan hanno chiesto perché tra i falliti non abbia messo Gesù, egli ha detto di non averlo fatto perché non ha studi teologici alle spalle che lo permettano e per rispetto, visto che la figura di Gesù è talmente grande che non può essere ridotta al fallimento. Ma pensando al tema del fallimento (che molto mi intriga e mi riguarda) si arriva al centro di molte religioni, come testimonia la visione buddista della vita come sofferenza. In conclusione il fallimento, l’errore (dimensione che implica il perdersi o l’arrivare in un luogo sconosciuto e non previsto, e in questo senso può essere anche una arricchimento) può essere un’occasione educativa, un aprire lo sguardo all’autorità del “dettaglio meschino” (Cioran), un modo di uscire dallo stigma sociale, aggravato dalla dimensione on-line che acutizza il problema della nostra proiezione esterna di ciò che vorremmo essere (e spesso non siamo).
Lo dimostra la parabola del pigrissimo Cioran, maestro dell’inazione, che si definiva con orgoglio un parassita sociale, e che è passato dallo scrivere un saggio sulla “Trasfigurazione della Romania” a “Sommario della decomposizione”: due concetti opposti, ma che alla fine hanno come ultima parola la terra, l’humus, l’umiltà. E di una terra speciale ha bisogno il vampiro per poter sussistere e costantemente lamenta la mancanza di una sua terra il poeta Kinski. “Occorre avere almeno un paese da cui poter fuggire” scrive Cesare Pavese ne La luna e i falò. Il fallito in ogni luogo e tempo questo non ha: una terra, un paese.
* In foto