(riflessioni di un rianimatore)

Di Brunello Pezza 

Prima di trattare questo argomento ho impiegato parecchio tempo per trovare un titolo ed una “intro” che fossero meno impattanti agli occhi e alla sensibilità del pubblico, ma poi ho capito che stavo già sbagliando: la morte non è un concetto che puoi addolcire o disinnescare, la morte è la morte, un fenomeno “tutto o nulla”, la puoi solo accettare ed elaborare per ciò che è oppure la puoi negare, far finta che non esiste.
Questo è poi infine proprio il tema che proverò ad affrontare in queste righe.
Permettetemi, prima di cominciare, di dire perché voglio parlare di questo argomento: sono stato (o forse dovrei dire “sono”) un rianimatore che ha lavorato dal 1977 al 2019 in posti come Pronto Soccorsi, Sale Operatorie, Rianimazioni e quindi a stretto contatto con la morte, combattendo contro di lei (come tutti i medici ma in modo particolare i rianimatori) e contendendo a lei (estremamente più potente di noi) la vita dei pazienti che ci venivano affidati.
Quindi ho avuto un osservatorio molto speciale per studiarne non solo gli aspetti sanitari ma anche l’impatto sociale ed il modo in cui si è evoluto durante questi anni.

Scusandomi per la prolissa ma (credo) indispensabile premessa entro ora nel pieno dell’argomento e lo voglio fare descrivendovi due scenari tipici del nostro lavoro in due epoche diverse: una relativa agli inizi della mia vita lavorativa (fine anni 70’) ed uno relativo alla fase finale (2018-2019). La situazione è la stessa: il momento in cui si danno le prime informazioni ai parenti relative alle condizioni del paziente ed alle prospettive possibili.
Alla fine degli anni ’70 quando dicevi ai familiari che pur essendo grave il paziente aveva delle chanches e doveva quindi ricoverarsi in Rianimazione e poi specificavi loro che però se l’esito fosse stato negativo la salma avrebbe dovuto rimanere in ospedale, succedeva che i familiari ti guardassero con gli occhi sgranati e volti sconvolti dal dolore e dicevano: “ … e deve morire in ospedale? Non può tornare a casa sua?” ritenendo ciò un estrema cattiveria o addirittura una offesa, anche se involontaria, al loro caro. Il fatto che non potesse tornare a casa sua a ricevere il dovuto saluto ed il dovuto affetto di amici e parenti sembrava a loro gravissimo. La mancanza in pratica di una doverosa “liturgia” che sancisse e celebrasse l’evento triste ma inevitabile era una condizione quasi insopportabile per loro.

Spostiamoci ora negli ultimi anni del mio periodo lavorativo (2018 -2019), nella stessa condizione relativa alle informazioni alla famiglia ma con un tipo di paziente che per vari motivi era ritenuto irrecuperabile e non suscettibile di terapia rianimatoria efficace. Per tali motivi (cosi si concludeva il discorso) si riferiva che fosse inutile e doloroso il ricovero e che il paziente poteva essere riportato a casa dalla sua famiglia. Subito dopo averlo detto i volti degli ascoltatori erano come nel primo caso sconvolti e con gli occhi sgranati ma la frase che il più delle volte ascoltavi era “… e deve morire a casa?”.
Come potete capire sono due scenari assolutamente opposti e la evoluzione dal primo al secondo nel corso di questi anni è stata l’effetto di una profonda trasformazione sociale.

Nel secolo scorso la morte è stata affrontata come una realtà triste ma innegabile ed inevitabile, era un fenomeno chiaro e non equivocabile e veniva gestito con un “rituale liturgico” da parte delle due autorità del paese: il medico condotto per la parte sanitaria ed il parroco per la parte liturgica. Le famiglie e gli amici si sentivano impegnati nel saluto e nel commiato e nessuno, neanche i bambini, veniva escluso dall’evento.
In tal modo veniva insegnato a tutta la comunità (adulti e bambini) come “metabolizzare” e quindi superare l’evento. La perdita per motivi ospedalieri di questo rito veniva considerato una gravissima carenza, una “falla” del sistema, addirittura qualcosa di cui vergognarsi.
Cosa è successo da allora ad oggi?
Su questo posso esprimere solo una opinione personale ma ritengo sia fondata: la nostra società , tramite i media, sta diffondendo da tempo una “subcultura della immortalità”: bisogna essere sempre belli, giovani, sani, atletici, meglio se famosi o almeno avere followers che ti fanno illudere di essere tale. In questo contesto la morte (quella vera non quella che ci fanno vedere le tv mentre siamo a cena a tavola o sdraiati sul divano) non può esistere, altrimenti si rischia di smentire questo illusorio sistema che, come sempre succede, sostiene anche un importante mercato della “bellezza e della immortalità”.
La morte quindi non può entrare nelle nostre case, non deve essere facilmente accessibile e tangibile concettualmente e visivamente. Gli Ospedali e in particolare le Rianimazioni, in un totale fraintendimento della loro importantissima funzione, si prestano benissimo a questo processo di ”occultamento”. Poco importa se i nostri bambini, esclusi dal rito e dalla liturgia della morte, non sapranno gestire in un prossimo futuro nessun aspetto dell’evento perché nessuno glielo ha insegnato.

Tutto questo viene sacrificato sull’altare di una finta immortalità, di un fittizio mito della bellezza e della salute perenne. Basta nascondere sempre di più la morte e il suo impatto sociale e il gioco è fatto.

Siamo tornati quindi a quanto dicevo nelle mie prime parole: la morte non la puoi sminuire o svilire, la morte o la riconosci per ciò che è o la neghi, la annulli nell’oblio.

Vi lascio con una ultima riflessione: il culto dei morti è considerato universalmente una delle prime, se non la prima espressione di una civiltà, quanto stiamo tornando indietro?

Ph : Pixabay senza royalty

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