I tormenti della preparazione del nuovo PBS, ex legge finanziaria, inducono a una riflessione più generale sulla politica in un Paese di democrazia parlamentare.
Il dibattito ripetitivo su tasse e tagli, su promesse e affanni, senza atti di vero coraggio, è il paradigma di una crisi innanzitutto di maturità. E’ duro confrontarsi coi vincoli reali, più facile fare una dichiarazione fulminante per i TG serali.
La politica è forse la più complessa e difficile tra le attività umane. Basterebbero le fallimentari semplificazioni del populismo a dimostralo.
Se diciamo che in questi anni è stata messa a rischio la democrazia e il pluralismo, non si emoziona nessuno, ma un recente studio di “Foreing affairs” ha dimostrato che sovranisti e demagoghi quando vanno al governo peggiorano il quadro economico, a causa di protezionismi e lesioni dello stato di diritto.
Funke, Trebesch e Schularick, autori dello studio, concentrato su un arco di 15 anni, hanno usato un algoritmo su un campione di Paesi disponibili alle lusinghe populiste, e hanno accertato che in quei casi il Pil è mediamente 10 punti più basso. Il populismo, insomma, è il contrario di un reddito di cittadinanza. Calpestando le regole della democrazia liberale, troppo scomode e impopolari, si lascia la società civile senza protezioni e si disincentivano crescita, investimenti, innovazione. Il trumpismo contagia poi anche i suoi avversari: l’amministrazione Biden non ha cancellato molte delle scelte del suo predecessore.
Ma il problema vero, che sperimentiamo in Italia anche dopo il ribaltamento degli equilibri verso destra, è il fatto che i partiti – oggi impoveriti nella loro funzione di intermediari sociali, privi di classi dirigenti selezionate dal basso ma cooptate dall’amichettismo, impreparati a sostenere battaglie sui contenuti che non siano solo un’emozione social – sono tutti populisti in campagna elettorale, e realisti loro malgrado quando vanno al governo.
E così è persino troppo facile ironizzare sulle contraddizioni, perché davvero ci son velleità draghiane (o persino montiane) nella politica economica del governo Meloni, ma allora è un paradosso triste che la reputazione di chi governa sia tanto più apprezzata quanto più si discosta dalle promesse fatte per avere i voti. E questo è naturalmente diseducativo per gli elettori, che si sentono presi in giro se ti hanno votato perché abolivi le odiose accise, attuavi i blocchi navali, cancellavi la Fornero e promettevi sfracelli in Europa.
I numeri elettorali di Salvini e Conte crollano più per delusione che per una critica motivata, e le delusioni allontanano dalle urne.
L’errore non è quello che si fa ora, cercando di essere ragionevoli, ma quello che si è fatto sui palchi dei comizi, facendo sognare la rivoluzione.
Nessuno che dicesse chiaro che con 3000 miliardi di debito pubblico è il mercato dei creditori che ti comanda, o che senza la BCE, saremmo da tempo in default. E che il Pnrr è una benedizione che sconsiglia di far comunella con tipini alla Orban o alla Wilders, pesci fuor d’acqua a Pontida, che – da buoni nazionalisti – sono i peggiori nemici dell’Italia patriottica.
Ora continueremo a sentire per settimane proclami su tasse e tagli delle spese, ma mai una valutazione oggettiva sull’eventuale opportunità e necessità delle une e degli altri. Ci sia risparmiata almeno l’evocazione di tasse già esistenti per demagogica punizione di presunti furbetti. Tagliare è doloroso, ma 625 eccezioni fiscali sono troppe.
Anche l’opposizione ha le sue responsabilità, se chiede cose impossibili. Si calcola che il programma elettorale della Harris se applicato integralmente costerebbe 3500 miliardi di dollari, anche se quello di Trump ne costerebbe 7500. Possibile che gli elettori ci caschino sempre?
Dopo due anni e avendone davanti tre, per Meloni è l’ultima occasione, anche se è dura rimangiarsi i proclami. Ne sanno qualcosa il premier britannico, che per fare sul serio ha già perso 30 punti rispetto alla recente vittoria, e quello francese, che propone addirittura una patrimoniale, che da noi è una parolaccia.
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