Di Valeria Rando

La guerra israeliana sul Libano e l’enorme crisi di sfollamento interno che ne consegue aggiungono un ulteriore fattore di instabilità sulle sorti del paese mediorientale, da cinque anni in una crisi senza precedenti. In assenza di un governo in grado di incaricarsi delle necessità degli sfollati, e con le tensioni sociali interne sul punto di esplodere, il destino dei sopravvissuti è nelle mani della società civile

BEIRUT, 24/10/2024 – È autunno inoltrato, anche se le piogge stagionali, e per fortuna, non hanno ancora iniziato ad abbattersi sul Libano. Ma l’aria è fredda, e chi dorme per strada sembra sapere a cosa andrà incontro, mentre in lontananza riprendono i bombardamenti su Dahieh, il quartiere meridionale di Beirut, da cui la maggior parte degli sfollati proviene. Senza dirselo a voce alta, forse per scaramanzia, o forse per pudore, ci si chiede se la casa abbattuta dall’ultimo attacco israeliano sia la propria, o quella dei vicini. “Siamo nelle mani di Dio,” confessa Umm Hassan, letteralmente ‘la madre di Hassan- secondo l’abitudine araba dei genitori a prendere il nome del primo dei figli. Quasi che il nome di una madre, insieme alla sua esistenza, alla nascita del primogenito, debba portarne l’impronta.
“Nelle mani di Dio – e nelle vostre,” echeggia il marito, Abu Hassan – ‘il padre di Hassan’ – mentre con un gruppo di volontari distribuiamo pane, ceci in scatola, acqua, qualche biscotto per i bambini, e prodotti per l’igiene personale.

È un uomo anziano, Abu Hassan, sorridente, nonostante gli occhi arrossati dal pianto: testimone di almeno tre guerre, e cresciuto sotto la ventennale occupazione israeliana del sud del Libano – conclusasi nel 2000 -, è originario di Marjayoun, al confine meridionale con Israele a cui qui ci si riferisce sempre e solo come ‘Palestina occupata’, per non dimenticare, evitare che la storia si ripeta, e che i colpevoli siano assolti dal tempo e dell’oblio. Si era trasferito a Beirut, con tutta la famiglia, durante il conflitto del 2006: perdendo tutto, e tutto ricominciando. Dev’essere difficile, per un capofamiglia, risolversi ad accettare un kit di sopravvivenza quotidiana da estranei, sul lungomare della città che nel nome porta il segno del mandato francese – la Corniche – dopo che il resto del paese gli ha voltato le spalle.

1,3 milioni di sfollati, in un paese di sei milioni di abitanti – di cui quattro milioni libanesi, e due milioni rifugiati, per la maggioranza siriani – pesano enormemente sulle sorti di una nazione al collasso. Da cinque anni il mese di ottobre, per il Libano, sembra scandire nient’altro che il tempo di una nuova, profondissima crisi: nel 2019, in nome della fine del confessionalismo e della corruzione, scoppiarono le proteste di Piazza dei Martiri, presto dilagate in tutto il paese; dodici mesi dopo, con il Covid e la crisi economica in rapido peggioramento, la moneta locale aveva già perso il 20% del suo valore – oggi svalutata al 98% – e a governare erano tornati la stessa corruzione e confessionalismo a cui la gioventù libanese si era tanto opposta; nel 2021, nello stesso mese, due movimenti sciiti – Hezbollah, e il meno noto Amal – si confrontarono con membri armati delle Forze Libanesi nei violenti scontri di Tayouneh, chiedendo le dimissioni del giudice incaricato delle investigazioni per l’esplosione al porto della capitale; nel 2022, a termine del mandato del presidente della repubblica Michel Aoun, il paese si ritrovò senza guida – e con un debole governo tecnico, da allora ancora insidiato.

Quello che ottobre 2023 ha rappresentato per la regione mediorientale è noto, con gli attacchi di Hamas, la presa degli ostaggi, e la brutalissima controffensiva israeliana sulla Striscia di Gaza, in un corso ancora evidentemente inarrestabile.

Oggi, un anno e 50 mila morti palestinesi più tardi, il Libano si ritrova faccia a faccia con una nuova escalation, il timore di trasformarsi in una nuova Gaza, con il peso di almeno 2,500 vittime, 12 mila feriti, e un numero di sfollati che, superato il milione, continua ad aumentare: come aumentano i bombardamenti israeliani sul sud, la valle della Beqaa, e i sobborghi meridionali della capitale.

Paese guidato da un governo provvisorio, con un esercito per la maggior parte finanziato dagli Stati Uniti – gli stessi principali finanziatori della guerra genocidaria israeliana sul popolo palestinese – il Libano destina meno del 3 percento del bilancio statale per le spese di costruzione. Il che significa che, con 1.095 strutture adibite a rifugi temporanei, di cui 908 già alla massima capacità raggiunta; con l’esclusione dagli stessi degli sfollati ‘di serie B’: i rifugiati siriani, palestinesi, e i lavoratori e le lavoratrici migranti; senza fondi impiegati per costruire nuovi rifugi; con le forze di sicurezza che evacuano gli edifici vuoti occupati dagli sfollati, e gli abitanti delle zone considerate sicure che si rifiutano di aprire le proprie porte – per timore di diventare un nuovo bersaglio di Israele -, i bisogni di centinaia di migliaia di persone sono lasciati nelle mani della società civile, di centinaia di volontari che in tutto il paese si sono messi all’opera per minimizzare – o tentare di farlo – i danni che la cieca brutalità israeliana continua a lasciare dietro di sé.

“Vengo qui tutti i giorni, da circa un mese, per cercare di aiutare come posso, è l’unica cosa che abbia un senso fare per la mia comunità,” ammette Hala, 22 anni, mentre presta servizio in una delle cucine comunitarie di Beirut. Tra i volontari c’è anche Mohammad, egli stesso sfollato, ma ‘fortunato abbastanza’ – si definisce così – per non aver perso il lavoro, dunque potersi permettere i costi di un nuovo affitto, e garantire alla sua famiglia un tetto, e un pasto quotidiano. “Non tutti hanno la stessa fortuna,” racconta, mentre sporziona la mujaddara da distribuire nei rifugi della città, e non si distrae nemmeno al passaggio di un drone, alla notizia dell’ennesimo bombardamento in quello che un tempo era il suo quartiere. “Ignorali,” mi suggerisce, forse intercettando nel mio viso una smorfia di preoccupazione: “non possiamo permettere loro di toglierci anche la voglia di fare del bene.”

Così mi metto al suo fianco, sfilando con una mano, uno alla volta, un vassoio dalla pila interminabile – riusciamo a preparare fino a 4 mila pasti al giorno -, e con l’altra immergendo il mestolo nella pentola di riso e lenticchie, ignorando i droni, l’eco dei bombardamenti, e concentrandomi su questa – un’altra, diversa, non meno necessaria, forma di resistenza alla distruzione.

 

Ph : Pixabay senza royalty

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