Per attirare l’attenzione sulla drammaticità della crisi dell’auto, ci sono voluti uno sciopero riuscito e una rara convergenza della politica italiana contro Carlos Tabares, numero uno della multinazionale che ha fagocitato Fiat e la sua storia.
L’automobile vale l’11% del Pil nazionale, ed è la storia stessa dell’industria italiana. Dalla fondazione di Fiat ha costituito l’ossatura di un Paese che è diventato anche culturalmente da agricolo pastorale a modernamente avanzato.
La Fiat oggi non è più la Fiat, è solo uno dei tanti marchi di Stellantis, cui è approdata sei mesi dopo la morte di Sergio Marchionne, il figlio di un carabiniere abruzzese che l’aveva salvata, sottraendosi genialmente a due dipendenze a cui i predecessori l’avevano condannata: da GM e dalle banche, e arrivando addirittura ad acquisire la Chrysler Usa, tra gli applausi dei sindacati americani. Marchionne si opponeva alla svendita del gruppo diventato FCA ai francesi, ma morì prima che la componente azionaria italiana cambiasse la strategia. Il nuovo ramog Agnelli, rappresentato da John Elkan, ha preferito – senza mai annunciarlo, anzi presentandosi come difensore dell’italianità – puntare sulla diversificazione dei propri investimenti (elettromedicale, calzature). In Italia, ha speso si, ma nell’editoria, acquisendo tramite GEDI i più importanti quotidiani nazionali, Corriere escluso. Per questo, è accusato di aver organizzato una trincea mediatica rispetto all’abbandono del settore chiave della dinastia.
Sta di fatto che con Stellantis è finita l’autonoma presenza italiana sul mercato automotive.
Nonostante abbondanti sovvenzioni pubbliche, sono scomparsi interi stabilimenti come Chivasso, Desio, Rivalta e Arese (Termini Imerese pur pagato del tutto dallo Stato, era già chiuso) e il gruppo è sceso a un livello occupazionale minimo, molto meno di quello che c’era solo a Mirafiori nel 1980 quando Enrico Berlinguer parlò ai cancelli della fabbrica, prima di essere politicamente sconfitto dai 40 mila della famosa marcia.
Il fondatore di Fiat, Giovanni Agnelli, nel 1900 dava lavoro a 67 mila operai, nel 1914 a 85 mila, dopo la prima guerra – con la conversione dei veicoli a fini militari – a 150 mila. Torino diventava già negli anni 20 una città fabbrica con 1000 aziende metallurgiche, nasceva l’incredibile vastità del Lingotto che realizzava l’incubo di Charlie Chaplin in un’unica inesorabile catena di montaggio che saliva dal pian terreno alla pista di collaudo sul tetto. Oggi Mirafiori è un pò deserto, un pò centro commerciale.
Nel 2000 l’Italia, con 1,7 milioni di auto, era il 5° Paese europeo e il 9° al mondo per la produzione; nel 2022, rispettivamente, era scesa alle posizioni 8 e 20. E le produzioni sono ora sparse: Marocco, Polonia. Serbia, Spagna. A Modena in otto mesi sono state prodotte solo 220 Maserati.
Nel mese di settembre il calo di immatricolazioni è stato del 72,3% rispetto allo stesso mese del 2023. mentre in Europa il calo è stato del 16,5 %, e negli otto mesi c’è stato almeno un +1,7%. Quella che apparentemente regge socialmente è l’occupazione, ma perché è assistita. Melfi ha oltre 5000 operai in solidarietà, Mirafiori e Pomigliano d’Arco sono al 17esino anno consecutivo di cassa integrazione a rotazione. Tutto questo avviene mentre l’intero mercato mondiale dell’auto è in confusione, e i cinesi, con idee chiare e soldi di stato, si sono già impossessati dell’elettrico (che l’Europa, tutti contrari, vuole totale nel 2035) e verranno a produrre ben accolti in Italia mentre già dominano il mercato mondiale delle batterie (da costruire a Termoli, ma Stellantis rinvia sine die). Occorrerebbero imprenditori e non finanzieri, ma il principale proprietario italiano, capo azienda con un’infanzia ricca ma difficile e ora una madre che chiede sequestri milionari, è evidentemente distratto, mentre lo stesso Tavares, sconfitto dal flop USA, sta per essere abbandonato dagli azionisti che contano (per ora lo pagano 23 milioni anno). Per salvare l’auto con imprenditori in fuga, occorrerebbe volontà politica chiara ma l’unico in Europa con idee è Macron (vuole fondere Stellantis e Renault). Da noi, silenzio e cassa integrazione (finchè dura).
*Beppe Facchetti è stato deputato al Parlamento e responsabile economico del PLI. E’ attualmente vicepresidente di Confindustria Intellect, che federa le associazioni della comunicazione e della consulenza.Ha sempre lavorato, in aziende, associazioni e istituzioni, nell’ambito della comunicazione d’impresa, materia che ha insegnato all’Università di Perugia e attualmente di Milano. Editorialista di politica economica per “L’Eco di Bergamo”, ha ricevuto nel 2015 la medaglia dell’Ordine per 50 anni di attività pubblicistica. Già membro della Giunta esecutiva dell’ENI, vicepresidente di Sacis Rai, ASM Brescia. Consigliere comunale, provinciale di Bergamo, candidato alla presidenza della Provincia per il centrosinistra.
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