I fermenti più significativi del movimento studentesco sono stati però effimeri. Anche questo saggio, allora mitizzato, è stato ben presto dimenticato. Eppure, a sessant’anni di distanza, ci sono ancora aspetti che meritano di essere ricordati e discussi.
L’incipit (Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata) riassume la critica al rapporto fra permissivismo ed eterodirezione. L’identificazione dell’homo consumens con i prodotti non è solo un’illusione – ovvero un’attribuzione di valenze simboliche – ma diviene reale, oggettiva. Una forma assoluta di alienazione, giacché il soggetto è inghiottito dalla sua esistenza alienata. “C’è soltanto una dimensione, che si trova dappertutto e prende ogni forma,” e le merci, veicolate dall’industria della comunicazione, “legano i consumatori ai prodotti.”
Affermando che la tecnologia è lo strumento per forme di controllo e di manipolazione del consenso non solo accettate ma richieste da chi le subisce, L’uomo a una dimensione fa riferimento all’esportazione dell’American Dream. Ma sembra anche preannunciare gli effetti della globalizzazione che, attraverso i mass media e il web, veicola oggi in tutto il mondo bisogni e stili di vita, prima ancora che prodotti.
Peraltro, la critica del neocapitalismo che troviamo in questo saggio si può applicare anche alla socialità pervasiva che, sull’onda del ’68, ha permeato gli anni ’70 e ha preparato il terreno alla controriforma degli anni ’80, segnati dal neoliberismo dell’era reaganiana.
Ma qualcosa è rimasto degli aspetti più fecondi di quella rivoluzione culturale?
Nel maggio francese, subito esportato negli altri paesi europei, prevaleva l’accentuazione democratico-libertaria: la domanda di diffusione del potere si contrapponeva alla rigida divisione in classi della società. I moti studenteschi di Parigi prendevano spunto dalle rivolte nei campus americani e, in particolare, a Berkeley, ma le loro vere radici erano in Europa e le caratteristiche erano maturate nel decennio precedente, in un’epoca di apparente conformismo e di forte innovazione.
Nel 1956, al Royal Court Theatre di Londra, era stata messa in scena per la prima volta Ricorda con rabbia di Osborne, che sarebbe divenuto un manifesto degli “arrabbiati,” mentre, più o meno nello stesso periodo, I dannati della Terra di Frantz Fanon, nel denunciare il colonialismo ma anche i limiti della decolonizzazione, poneva il problema di costruire una società postcoloniale e La peste di Camus evocava i drammi di una civiltà in cui il progresso non si legava alla solidarietà.
Influirono particolarmente nel cambio d’epoca Lawrence Ferlinghetti, Mario Savio, Dylan Thomas, il “bardo gallese,” Bob Dylan e Allen Ginsberg, mentre a Baton Rouge Salinger tracciava con The Catcher in the Rye (che in italiano divenne Il giovane Holden) il manifesto di una generazione che si ribellava al conformismo.
Inoltre, se Marcuse ricercava latenti potenzialità rivoluzionarie, Horkheimer e Adorno prospettavano un’assoluta negatività che escludeva ogni proposta alternativa, in quanto l’ipostatizzazione dell’antitesi interrompe l’incedere triadico di derivazione hegeliana.
Eppure, come una novella Fenice, la dialettica è destinata a risorgere in forme impreviste. Serge Latouche, di fronte alle antinomie della nostra civiltà, si rifà alla distinzione classica tra phrónesis – ovvero la prudenza, il “ragionevole” – e lógos epistemonikós, ovvero la ragione geometrica, economica, tecnologica. Le angustie di quest’ultimo comportamento, che nella cultura dell’Occidente ha sovrastato e cancellato la “phrónesis,” si rivelano quando non si riesce più a cogliere la vita nel suo complesso. La razionalità strumentale non basta a dare un senso alla vita se prescinde da valori come la libertà e la giustizia.
In un mondo in cui alla limitatezza delle risorse si risponde con la manipolazione della natura e che offre “libertà” ma genera alienazione, anche all’interno della cittadella del benessere c’è insoddisfazione; tanto più che la corsa al consumo provoca una povertà relativa, che si evidenzia nelle ricorrenti crisi congiunturali e nella progressiva atrofia del welfare state. Merita sottolineare la crescita delle nevrosi legate ai meccanismi economici e alla perdita degli aspetti affettivi, istintuali.
Questo è il varco che consente di rendersi conto delle promesse non mantenute. La civiltà contemporanea, figlia della globalizzazione, ha come obiettivo il diritto alla felicità. Invece, passa da una crisi all’altra, sta diventando la civiltà dell’inquietudine. E affonda nel grigiore dell’esistenza irrelata. Nel villaggio globale regnano la solitudine e l’afasia.
Info Gabriele Parenti
Gioranlista professionista e scrittore, ha svolto per numerosi anni, all’interno della RAI, attività di progettazione e conduzione di programmi radiotelevisivi per le reti nazionali e per la Sede Rai Toscana.