Di Carlo di Stanislao *

C’è differenza tra l’aver dimenticato e non ricordare.

Alessandro Morandotti

Uno di questi è Brunello Rondi senza il quale non avremmo avuto capolavori felliniani come La dolce vita, 8 e 1/2, La Città delle donne e Prova d’ orchestra, tra i molti altri film di Fellini di cui Rondi fu uno degli sceneggiatori. E un superbo film che diresse come Il Demonio, una delle sue opere più importanti che proprio in questi giorni è riproposto in Basilicata e domani sera, 27 novembre, verrà proiettato alla casa del Cinema come Omaggio per il Centenario dalla nascita (Tirano, 26 novembre 1924 – Roma, 7 novembre 1989) di questo artista ed intellettuale a trecentosessanta gradi. Senza contare il suo lavoro di saggista, (pionieristici i suoi testi sul neorealismo italiano) critico, drammaturgo, poeta eccelso vincitore tra l’altro del Premio Firenze con una giuria presieduta da Mario Luzi. Nel 2025, su iniziativa di Pupi Avati, consigliere del Centro Sperimentale di Cinematografia, il CSC ripubblicherà un libro straordinario di Rondi, pietra miliare degli studi su Fellini, appunto Il Cinema di Fellini, già editato nei primi anni Sessanta.

Morto nel 1989 a soli 64 anni, Rondi è stato definito “un genio” da Roberto Rossellini, con cui collaborò per la sceneggiatura di alcuni film, e uomo di “caratura rinascimentale” dal fratello di Brunello, il celebre critico Gian Luigi Rondi. Collaboratore creativo di grandi registi, dicevamo, come Roberto Rossellini e soprattutto Federico Fellini, si formò nella cruciale temperie cinematografica del Neorealismo. Attratto dalle ambiguità delle passioni, interessato a indagare le superstizioni e gli stati patologici della psiche e incuriosito dal mondo magico-religioso, mosso da una volontà di critica della società e della corruzione morale degli ambienti borghesi, sviluppò e approfondì questi motivi oltre che nel lavoro di sceneggiatore, anzitutto per Fellini, anche come autore e regista di film caratterizzati da una sensibilità acuta e inquieta, del tutto interessante e davvero particolare.

Nel 1962, dopo aver diretto alcuni cortometraggi, esordì nella regia di un lungometraggio a soggetto, Una vita violenta, tratto dall’omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, realizzato in collaborazione con Paolo Heusch. Nello stesso anno, diresse un altro interessante film, Il demonio, seguito nel 1964 da Domani non siamo più qui. Dopo questi film, Rondi seguì un suo percorso più personale, incentrato sull’analisi di inquietanti e problematiche figure femminili, che non hanno eguali nella storia del cinema italiano.

Nei suoi 21 anni di carriera come regista ha diretto molti film, fra cui: Una vita violenta, Il demonio e I prosseneti, tre opere di grande valore formale e narrativo ed altre originali pellicole come: Le tue mani sul mio corpo (1970), Ingrid sulla strada (1973), Velluto nero (1976). Una vita violenta è un film bellissimo e impegnato, tratto, come detto, da un romanzo di Pasolini, nello stile del neorealismo e sulla scia di Accattone dello stesso Pasolini, uscito l’anno prima. L’interesse di Una vita violenta dipende dal fatto che il film non rientra nel diffuso filone delle facili e sospette varianti pasoliniane, care a certo cinema italiano. Intatti non ci troviamo di fronte né alla esaltazione estetistica del vitalismo e della “libertà” del ragazzo di vita (il Bolognini de La notte brava), né al vagheggiamento patetico-crepuscolare di tante pellicole su questo tema, uscire in quegli anni. Lo stile quasi documentaristico con cui è raccontata la storia, il lasciar parlare più i fatti che i personaggi, consentono un ritmo sostenuto ed avvincente con sequenze stilisticamente davvero molto riuscite.

L’anno dopo (1963) esce Il demonio, oggi cult internazionale citatissimo su internet e di recente riproposto a Lincoln Center di New York, alla mostra di Venezia e al Festival di Locarno, interessantissimo spaccato cupo e carnale del male figlio dell’arretratezza e della superstizione bigotta, con cui si alimenta fino a diventare un vero e proprio flagello. L’inizio ha evidenti echi verghiani (La Lupa), poi la descrizione degli eventi amalgama bene la scrupolosità documentaristica e le svolte fantastiche, senza concessioni facili all’horror.
Il film che ha ispirato anche William Friedkin per L’esorcista, tra il melodramma, l’horror e il saggio antropologico, è un fulgido esempio del miglior cinema “maledetto”, misterioso per i suoi toni scuri di casa nostra anche se ispirato a una chiara e trasparente denuncia culturale e sociale del sopruso sulle donne

Le tue mani sul mio corpo (1970) parla invece di nevrotismo edipico e della noia che pervade i giovani borghesi. La gioventù introversa non è sicuramente stata inventata da Rondi e ha diversi predecessori, a partire da Moravia. Ma qui il regista fa riaffiorare pian piano le problematiche psicologiche del protagonista, grazie sia ai flashback inquietanti e poetici sia all’ambientazione desolata della spiaggia (specchio della solitudine interiore) e alla bravura di Capolicchio. Introspettivo, subdolo, affascinante, Le tue mani sul mio corpo è un film atipico che richiama certe atmosfere antonioniane, ma le realizza in modo del tutto nuovo ed originali.

La psiche e la psicologia alla base del soggetto, specialmente del personaggio di Capolicchio; relazioni morbose e sbagliate per un’ossessione che ti distrugge l’anima in un lungometraggio che rispecchia perfettamente l’epoca e talune sfaccettature di una certa borghesia, fanno del film un unicum che credo non sia stato sufficientemente capito ed apprezzato, ritenuto erroneamente un’opera sospesa fra Bertolucci e Samperi, mentre si tratta di un dramma dalle tinte funeree (l’inatteso finale) che immerge lo spettatore in una realtà malata e perversa: quella di una mente nichilista, fallocratica e distruttiva.

Da ricordare anche Prigione di donne del 1974. che ne mostra la capacità di esplorare problemi drammatici e trascurati, come violenze e soprusi nelle carceri femminili. Come in tutti i film di Rondi, forte è la presenza dell’erotismo, ma non si scade mai nel volgare. In queste donne umiliate e macerate resta la grande forza di volontà di ribellarsi al sistema della società, e delle carceri stesse, dirette da suore non molto cristiane.

I Prosseneti, del 1976, è invece l’audace ritratto di una borghesia depravata e patetica, decadente e schiava dell’infimo, con singoli episodi ora grotteschi, ora inquietanti, ora irriverenti (il regista Luciano Salce nella parte di un regista da strapazzo con la fissa delle indigene) davvero molto riusciti, più della maggior parte dei film ad episodi usciti in quegli anni. Il “lungo respiro” è la metafora usata da Fellini per descrivere la straordinaria versatilità di Brunello Rondi ed è anche il titolo di uno splendido libro a cura di Stefania Parigi e Alberto Pezzotta dedicato a Rondi, con tutti gli itinerari, anche i più segreti, delle molteplici passioni che spesso si intrecciano e si motivano a vicenda nella sua produzione.

Il tentativo è quello di comporre un ritratto inedito e, per i più, sconosciuto di una personalità che ha attraversato la storia della cultura italiana del secondo Novecento con uno sguardo inquieto e vertiginoso, aperto ai più vivaci stimoli delle sperimentazioni artistiche europee e internazionali: dai saggi pionieristici su Bartók, alle collaborazioni cinematografiche con Fellini, Rossellini e Pasolini.

Insomma un libro da leggere ed un Autore tutto da riscoprire e da riscoprire anche come poeta, drammaturgo e saggista, rileggendo i suoi modernissimi drammi come Amanti (da cui Vittorio De Sica trasse un sottovalutato film con Marcello Mastroianni e Faye Dunaway) o La stanza degli ospiti; i suoi saggi di filosofia o i suoi libri di poesia, i suoi reportage di viaggio: tutti nel segno di una creatività da 360° gradi, appunto ”da uomo del Rinascimento”.

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