Di Paola Francesca Moretti Caporedattore alla cronaca e attualità
A distanza da un anno dall’assassinio di Giulia Cecchettin si è giunti alla tanto attesa sentenza di condanna al carcere a vita per l’ex fidanzato, reo confesso, Filippo Turetta. Il 25 novembre scorso, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è avvenuta la pronuncia di un’altra sentenza al fine pena mai, ovvero, quella toccata ad Alessandro Impagnatiello, condannato per l’uccisione della compagna Giulia Tramontano e del bimbo che portava in grembo.
Nel caso della sentenza di condanna a Filippo Turetta l’opinione pubblica ha posto sul banco degli imputati il reato di stalking divenuto argomento caldo e, ancora oggi, al centro di un altrettanto scottante dibattito nei salotti televisivi. Perché? Per il fatto che i giudici hanno escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking mentre sono rimaste in piedi le accuse per omicidio aggravato dalla premeditazione, sequestro di persona e occultamento di cadavere. A fine pronunciamento della sentenza tra la rabbia e l’indignazione di molti sono sorte spontanee delle domande: “Se non quelli di Filippo Turetta, quali sono allora i comportamenti persecutori?” e ancora “Se non costituisce crudeltà 75 coltellate inferte sul corpo di Giulia, allora, quali sono gli atti da ritenersi crudeli?” Ė proprio qui il bello e il brutto del ruolo dei giudici, i quali non fanno altro che applicare le leggi a disposizione e chissà in quanti casi non sempre le valutano condivisibili.
Ogni professione ha il suo rovescio, piaccia o meno le facce della medaglia sono sempre due, da questo non si sfugge.
Due sentenze che sono state in grado di restituire ai parenti il sapore della giustizia? Sicuramente anch’essi sono stati condannati al fine pena mai, nessuna tipologia di condanna sarà mai sufficiente a colmare il vuoto né a restituire le congiunte uccise barbaramente da due narcisisti malevoli.
Entrambi gli eventi di cronaca e i rispettivi risvolti giudiziari mi hanno portato a riflettere su quale possa essere la percezione di giustizia e quale rilevanza abbia per i famigliari delle vittime.
Penso che la condanna dell’assassino di una persona cara rappresenti un’essenziale fonte di conforto psicologico, oltre che una sorta di risarcimento morale, anche se da sola – la conferma mi viene dalle interviste che ho avuto modo di ascoltare da parte dei famigliari delle vittime – non è sufficiente a dare senso a una morte considerata ingiusta e cagionata per mano di chi ha preteso di avere il controllo sulla vita altrui.
La reazione per la perdita di un famigliare è personale, ogni essere umano reagisce al dolore come meglio sa fare, ciascuno con i propri tempi di elaborazione del lutto e in tale processo, la condanna, come atto sanzionatorio e riparativo, costituisce un momento fondamentale.
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