Ancora una volta quanto sta accadendo in Medio Oriente, eterna polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento, pone tutti di fronte al dilemma se sia lecito o no fare il male per vincere il male, se sia giusto o no rispondere alla violenza con la violenza e, non da ultimo, se si possa ritenere quanto detto il modo migliore di operare di un Paese democratico che ritenga a buon diritto di essere tale, come appunto Israele, per difendersi dal nemico.
Siamo figli di una storia che ha visto trionfare la democrazia dopo guerre sanguinosissime, come la seconda Guerra Mondiale, dove il maggior numero di morti non fu tra i soldati al fronte ma tra i civili, come oggi a Gaza e nel Libano.
Gli alleati vinsero la Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare, le bombe al fosforo su Dresda e in Italia su Cassino: bombardarono scuole ed ospedali, senza preoccuparsi minimamente di chi c’era dentro, come oggi accade nella striscia di Gaza, dove è praticamente impossibile portare qualsiasi tipo di soccorso a donne, vecchi e bambini.
La democrazia dei paesi occidentali, quella di cui siamo così fieri per le sue ottime Costituzioni che difendono i diritti basilari dell’umano convivere, se vogliamo stare ai fatti, è nata dalla vittoria dei buoni contro i cattivi, è nata da una guerra vinta con perdite umane impressionanti, campi di concentramento, pulizia etnica e quanto di peggio si possa immaginare.
Sono passati ottant’anni dalla fine della seconda Guerra Mondiale ma, in tutti questi anni, mai nessun intellettuale, nessun partito politico, nessun personaggio di spicco del mondo religioso si è posto la domanda terribile se sia lecito o no fare il male per vincere e, abbia cercato di dare una risposta convincente al quesito.
La verità è che in tutti questi anni il nostro giudizio sui conflitti che hanno coinvolto e coinvolgono popoli e Stati, non è più storico-politico ma sempre più etico-giuridico, come dimostra il ricorso, sempre più frequente, ai tribunali internazionali per poter stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, come dimostrato ultimamente dalla condanna emessa dal tribunale internazionale dell’Aia, a carico del premier israeliano Netanyahu per crimini di guerra.
L’etica, però, non può ridursi al diritto puro e semplice o alle sue enunciazioni, perché i conflitti, lo scontro di valori, tutto ciò che è vita e sentimento di uomini e popoli, tutto quello che muove la politica e di cui, al tempo stesso, la violenza si alimenta, non si possono ridurre a pure, astratte, definizioni giuridiche.
Deve esserci uno spazio dove a decidere sia il nostro personale convincimento, circa quello che è più opportuno fare in circostanze particolarmente difficili come è una guerra. E questo spetta alla politica, che ha la responsabilità di decidere nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte, come quella di ricorrere, extrema ratio, alla violenza, lasciando che il giudizio finale non sia di un tribunale ma della storia.