Di Paola Francesca Moretti caporedattore alla cultura 

“Solo una stampa libera e non soggetta a limitazioni può efficacemente denunciare gli inganni da parte del governo”, una frase uscita dalla bocca di Hugo Lafayette Black, un giurista statunitense dell’Ottocento. Prima Senatore degli Stati Uniti poi nominato dal Presidente F. D. Roosevelt membro della Corte Suprema, mantenne il suo incarico di politico per oltre un trentennio. Un’altra dichiarazione, mica male, di Black è stata: “Di fondamentale importanza tra le responsabilità della libera stampa è il compito di prevenire che qualsiasi parte del governo tragga in inganno il popolo”.

Questo insigne diplomatico usa due parole dal significato rilevante, ovvero, denunciare e prevenire come fondamenti di una stampa non soggetta ad alcuna forma di ricatto e complicità di carattere ideologico e politico. Affermazioni forti quelle di Black, in quanto pronunciate proprio da un esponente della politica. A casa nostra, invece, cosa accade? Che dire, l’Italia che si professa Paese libero sotto ogni aspetto di fatto nella classifica mondiale a libertà di stampa non è piazzato affatto bene. Tra bavagli e connivenze, dove si colloca, oggi, il giornalista? E, poi, che fine ha fatto il giornalista d’inchiesta? Quello del tipo americano praticato da Nellie Bly, pioniera di tale forma di giornalismo. Bei tempi, quelli. Altro che internet!

La mente offuscata dalla nebbia dei contenuti virtuali non distingue una notizia vera da una falsa. Gli stessi addetti ai lavori si sono talmente assuefatti alla logica del mordi e fuggi che pur di pubblicare per primi nemmeno si prendono la briga di verificare l’attendibilità dei contenuti divulgati. In altre parole? Tutto si va a fare benedire: codice deontologico, la propria credibilità e della redazione che rappresenta, rispetto per il lettore…
All’epoca della Bly era necessario recarsi sul luogo dove tutto accadeva, scrivere gli articoli – quelli passati alla cronaca come dispacci – a mano, inviarli in redazione con mezzi di fortuna, altro che e-mail!

Oggi, voglio soffermarmi a riflettere proprio su questo particolare genere del mondo dell’informazione: il giornalismo d’inchiesta. Mi domando “è da considerarsi, ormai, estinto?” Secondo me, no, anzi! Sparsi per il mondo ci sono bravi professionisti, vero è che non sono tanti, il fatto è che questa modalità di fare informazione è scandita da ritmi lenti, è attesa paziente, lavoro duro.

Ė un procedimento di indagine che sprona il giornalista a scavare nel fango, nel sudiciume, a immergersi negli abissi più profondi della mente umana e a restituirne sotto la forma di inchiesta giornalistica le nefandezze di cui una parte dell’umanità si è resa artefice. Il giornalismo d’inchiesta è un genere che pochi vogliono o se la sentono di esercitare, troppo costoso e altrettanto pericoloso per l’incolumità di coloro che lo praticano.

Le inchieste realizzate sono simili a dei gialli, dei prototipi concettuali, che fanno appello al massimo impegno da parte del professionista, e rappresentano il rimedio alla caducità delle informazioni.
L’indagine giornalistica la si può, senza errore alcuno, considerare il genere principe delle forme del giornalismo. È una metodologia di procedere: lunga, scrupolosa, precisa.

A leggere sui manuali le differenti definizioni e i molteplici studi fatti, oltre gli sforzi compiuti per racchiudere in un’unica definizione il significato d’inchiesta, a me, l’unica cosa che viene in mente è che l’atto di ricercare racchiuda già in sé il concetto ultimo del fare buon giornalismo. Se sosteniamo la tesi di coloro che affermano che la professione svolta dal giornalista è, di per sé, una mansione con caratteristiche investigative, allora la conseguenza naturale è che anche dietro un pezzo di poche righe oppure la realizzazione di un servizio televisivo di una manciata di minuti ci sia un lavoro certosino di indagine, di verifica, di vicinanza alle fonti, di rispetto verso la verità e i propri lettori.

Il giornalismo investigativo è una categoria con delle sue specifiche peculiarità che lo differenziano dalle notizie di cronaca in generale, quelle che quotidianamente leggiamo o ascoltiamo.
Il giornalista che decide di realizzare un’inchiesta ha bisogno di tempo, deve sapersi districare tra le molteplici e spesso non attendibili fonti, deve affinare il suo intuito, ha necessità di documentarsi a fondo sul caso che si è prefissato di seguire, è chiamato ad essere fisicamente presente sul luogo delle sue ricerche ma soprattutto deve mantenersi fedele alle norme deontologiche che lo invitano a verificare sempre la veridicità della notizia.
In Dentro la notizia Angelo Agostini chiarisce bene il concetto: “L’inchiesta racconta qualcosa in più del resoconto di tutto ciò che è accaduto ieri, o di tutto ciò che è accaduto nella settimana precedente.

E generalmente il “di più” dell’inchiesta è in esclusiva, è qualcosa che soltanto una testata, non le altre, vuole e può offrire al lettore. […] L’inchiesta scava là dove la cronaca non può arrivare, dentro l’evento e la notizia. […] Il suo scopo, e quindi il suo approccio con la realtà, è l’approfondimento, è la ricerca, è la promozione e nello stesso tempo la contestualizzazione del tema scelto”.

Chiudo il mio articolo con le parole di una grande giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja: “I servizi trasmessi in TV e gli articoli pubblicati sulla maggior parte dei giornali sono quasi tutti di stampo ideologico. I cittadini sanno poco o niente di quello che accade in altre zone del paese e a volte perfino nella loro regione”.

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