Di Beppe Facchetti*

La questione dei bassi salari è diventato un tema centrale della questione sociale. Non è solo una sensazione. Il paragone con i grandi paesi europei segnala differenze anche del 30%, che sono una componente della fuga di tanti giovani all’estero (dovrebbe essere la vera emergenza migratoria da gestire, ma non è utile per la propaganda).

Naturalmente, il dato statistico nasconde molte differenze, senza dimenticare chi un salario non lo trova del tutto. Ci sono squilibri regionali, categoriali, e persino tra uomini e donne. A Milano, i salari sono anche del 50% superiori a quelli del Sud d’Italia. C’è un confine grigio tra falsi autonomi e falsi occupati. Nell’industria si sta meglio, e al suo interno, i metalmeccanici sono meglio pagati, ma da 21 mesi è in crisi, e ora si rischia la cassa integrazione.

Alzare i salari non si può fare per decreto, alla sovietica. Occorrono fattori macro e micro economici, manca soprattutto da decenni il propellente della produttività. Dal 1990 negli USA è cresciuta del 70%, noi siamo fermi da un quarto di secolo.

Restano quindi prevalenti due soluzioni generali, i contratti collettivi e la riduzione del cuneo fiscale, che quest’anno ha assorbito quasi due terzi della legge di Bilancio, solo per lasciare inalterati gli stipendi.

Ma questi sono rimedi piatti (il secondo a spese della collettività), senza selezionare per merito e qualità. Il “fine tuning” richiederebbe un approccio culturale molto diverso, basato sulla valorizzazione alla produttività, ma è ostacolato dal gioco degli interessi e dalle incursioni della politica. Era così con il PCI e la DC, è così con FdI e Lega, che coltivano nuovi collateralismi, con sindacati amici in crescita.

I grandi contratti, ancora nel 2024, hanno svolto una funzione importante, segnalando un +2% medio del recupero dei prezzi, grazie a un +4,6% nell’industria, un 4,1% nei servizi, addirittura un +11% nel credito e nelle assicurazioni. Certo, sono miglioramenti che arrivano in ritardo (18,3 mesi di durata delle trattative, ma in passato era anche il doppio), e per i rinnovi ancora fermi si parla di aumenti quasi tutti sopra i 100/150 euro.

Dunque, la contrattazione nazionale è sempre un pilastro. Ma i dati dicono che tocca solo il 47,2% dei lavoratori dipendenti. Il resto – cosa buona – è contrattazione aziendale ma anche – cosa cattiva – contrattazione in dumping.

Al CNEL sono depositati ben 971 contratti del settore privato, di cui 271 si rivolgono a meno di 15 lavoratori! Perché la cosa è preoccupante? Perché questi minicontratti, moltiplicandosi all’infinito, anziché muoversi verso l’alto, agevolano una corsa alla riduzione media proprio di quei salari che ci lamentiamo siano troppo bassi. E allora occorre far attenzione ad una manovra legislativa in corso, che non a caso ha compattato il fronte contrario delle parti sociali, sia datoriali che del lavoro. C’è, nel nuovo codice degli appalti proposto dal Ministro Salvini, una norma che, per pagare i lavoratori degli appalti pubblici (con il PNRR molto estesi), tende a indicare il contratto di riferimento basandosi sul numero di lavoratori iscritti (o delle imprese associate), e sul numero dei contratti già sottoscritti. Sembra di buon senso, peccato che il primo problema non sia stato mai risolto e sia sovrastimato e che il secondo sia basato sulla quantità degli accordi e non sulla qualità, a causa proprio dell’illimitata possibilità di firmare contratti al ribasso. La via maestra per misurare la rappresentanza sarebbe quella di utilizzare i dati dall’INPS, come stabilito dal governo Monti, ma nessun Ministro (Di Maio, Catalfo, Orlando, Calderone) da allora ha autorizzato l’Istituto a farlo. Si va avanti con l’autocertificazione (o con poter crescenti ai consulenti del lavoro, presieduti fino a ieri dall’attuale Ministra Calderone, ora da suo marito…).

Per una svolta vera, ci vorrebbero un Governo che seguisse la linea Draghi (innovazione, ricerca, sviluppo tecnologico, A.I, insomma produttività) e parti sociali tese ad accordi al rialzo qualitativo, anche al di là del contenuto monetario. Se no, i salari resteranno bassi.

 

*Beppe Facchetti è stato deputato al Parlamento e responsabile economico del PLI. E’ attualmente vicepresidente di Confindustria Intellect, che federa le associazioni della comunicazione e della consulenza.

Ha sempre lavorato, in aziende, associazioni e istituzioni, nell’ambito della comunicazione d’impresa, materia che ha insegnato all’Università di Perugia e attualmente di Milano. Editorialista di politica economica per “L’Eco di Bergamo”, ha ricevuto nel 2015 la medaglia dell’Ordine per 50 anni di attività pubblicistica. Già membro della Giunta esecutiva dell’ENI, vicepresidente di Sacis Rai, ASM Brescia. Consigliere comunale, provinciale di Bergamo, candidato alla presidenza della Provincia per il centrosinistra.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.