La Corte di Assise di Modena, presieduta dalla giudice Ester Russo, ha condannato Salvatore Montefusco a 30 anni di carcere per l’omicidio della moglie Gabriela Trandafir e della figlia di lei Renata. Una sentenza che, pur tecnicamente corretta nella sua struttura, è stata fortemente criticata per una frase che, più di ogni altra considerazione, ha messo in ombra il lavoro della magistratura: il riferimento alla “comprensibilità umana dei motivi” che avrebbero spinto l’imputato a commettere il duplice omicidio.
Una decisione tecnicamente valida
Da un punto di vista strettamente tecnico, la sentenza appare in linea con il quadro normativo italiano. Il riconoscimento delle attenuanti generiche – basate su fattori come la confessione, l’assenza di precedenti penali e il comportamento collaborativo dell’imputato – è stato motivato in modo dettagliato. La Corte ha escluso la premeditazione, i motivi abietti o futili e l’aggravante della crudeltà, spiegando che il gesto sarebbe stato frutto di un “black-out emozionale ed esistenziale” causato da un clima familiare particolarmente conflittuale.
Tuttavia, la decisione di ridurre la pena rispetto alla richiesta di ergastolo avanzata dalla Procura non è stata l’elemento più contestato. A suscitare sdegno è stato il linguaggio utilizzato nella sentenza, in particolare l’uso dell’espressione “comprensibilità umana”, che sembra attribuire una sorta di giustificazione morale o emotiva a un gesto così grave e irreparabile.
La frase che ha rovinato tutto
La frase in questione – “motivi umanamente comprensibili” – ha trasformato una sentenza ben articolata in un caso emblematico di come il linguaggio possa compromettere l’efficacia e la percezione della giustizia.
Come può un atto deliberato, che ha portato alla morte di due donne, essere definito “umanamente comprensibile”? Seppur non premeditato, il gesto di Montefusco rimane un crimine gravissimo, frutto di una scelta precisa, compiuta con l’utilizzo di un’arma da fuoco. Descriverlo come “comprensibile” rischia di far percepire il femminicidio come una reazione quasi inevitabile o scusabile in situazioni di conflitto familiare, un messaggio che va esattamente nella direzione opposta a quella necessaria per combattere la violenza di genere.
Un linguaggio che pesa
Le parole hanno un peso, specialmente quando provengono da un tribunale. Esprimersi in termini di “comprensibilità umana” rischia di inviare un messaggio distorto: quello di una giustificazione morale o emotiva per un atto così grave come il femminicidio.
Si poteva arrivare a una condanna a 30 anni senza utilizzare espressioni che rischiano di alimentare una narrazione tossica, in cui la violenza viene letta come una conseguenza quasi inevitabile di un conflitto familiare. Un conto è riconoscere la mancanza di premeditazione o l’incensuratezza dell’imputato, un altro è attribuire alle dinamiche familiari un ruolo che quasi “scusa” il gesto estremo.
Interrogativi e rischi culturali
Questa sentenza pone interrogativi cruciali:
La giustizia può considerare “umanamente comprensibile” un atto di violenza estrema?
Che impatto ha il linguaggio giuridico sul cambiamento culturale necessario per combattere il femminicidio?
Come si può bilanciare il riconoscimento delle attenuanti con il rispetto per le vittime e i valori di una società che condanna fermamente la violenza?
Il ruolo di una donna nella sentenza
La presidente della Corte, Ester Russo, è una donna. Questo dettaglio, lungi dall’essere secondario, rende la vicenda ancora più complessa e paradossale. Da una giudice ci si sarebbe aspettati una sensibilità maggiore nel trattare un caso che tocca una delle questioni più gravi della società contemporanea: la violenza maschile contro le donne.
Non si tratta di mettere in dubbio la competenza tecnica della Corte o la legittimità delle attenuanti generiche riconosciute, ma di sottolineare l’importanza di un linguaggio che rispetti la gravità del reato e la dignità delle vittime. È proprio il contesto culturale e giuridico che dovrebbe essere tenuto presente quando si redigono le motivazioni di una sentenza. Parole come “comprensibilità umana” non solo urtano la sensibilità collettiva, ma rischiano di minare anni di battaglie per il riconoscimento del femminicidio come crimine intollerabile e mai giustificabile.
Un ragionamento che rappresenta un arretramento
Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, ha definito la sentenza preoccupante, mettendo in guardia contro l’introduzione di un ragionamento che potrebbe rappresentare un arretramento nella lotta contro la violenza di genere. La frase incriminata non è solo una scelta linguistica infelice, ma un errore che rischia di normalizzare, seppur indirettamente, un atto di violenza estrema.
La pericolosità di questo tipo di narrazione è evidente: se i motivi che spingono un uomo a uccidere vengono considerati “comprensibili”, si crea un precedente culturale che rende la violenza quasi giustificabile in determinate situazioni. Questo è un passo indietro inaccettabile, soprattutto in un contesto sociale in cui i femminicidi sono ancora una tragica realtà quotidiana.
Le attenuanti generiche: uno strumento mal interpretato?
Il riconoscimento delle attenuanti generiche non è di per sé sbagliato, ma va applicato con estrema cautela. Il rischio è che, nel tentativo di contestualizzare un reato, si finisca per ridimensionarne la gravità. La concessione di attenuanti non dovrebbe mai far passare il messaggio che le vittime, in qualche modo, abbiano contribuito al loro destino o che l’omicida sia stato “indotto” al gesto da un contesto familiare difficile.
Conclusioni
Questa vicenda mette in evidenza una verità scomoda: anche una sentenza tecnicamente corretta può essere profondamente sbagliata nel suo impatto culturale e sociale. Le parole hanno un peso, soprattutto quando provengono da un’istituzione come la magistratura. In un momento storico in cui la violenza contro le donne richiede una condanna ferma e inequivocabile, è fondamentale che il linguaggio della giustizia rifletta con chiarezza la gravità dei reati e il rispetto per le vittime.
Affermare che il femminicidio possa essere “umanamente comprensibile” non è solo sbagliato; è pericoloso.
La sentenza di Modena non riguarda solo un caso giudiziario specifico, ma rappresenta un banco di prova per l’intero sistema giuridico e culturale italiano. La scelta delle parole, soprattutto in casi delicati come i femminicidi, non è un dettaglio, ma una responsabilità che deve riflettere con chiarezza i valori di una società civile. La lotta contro la violenza di genere richiede non solo pene adeguate, ma anche una narrazione giuridica e culturale che non lasci spazio a equivoci o giustificazioni.
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