La recensione del Direttore Daniela Piesco

Il libro “Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz” rappresenta una testimonianza preziosa e drammaticamente attuale che si inserisce nel solco della memoria della Shoah, portando alla luce la storia di Oleg Mandić, l’ultimo bambino ad essere uscito vivo dal campo di sterminio di Auschwitz.

La narrazione, costruita abilmente da Filippo Boni insieme al protagonista, intreccia passato e presente creando un ponte temporale che collega l’orrore dell’Olocausto alle tragedie contemporanee, in particolare il conflitto in Ucraina. Questa scelta narrativa sottolinea come la storia, purtroppo, tenda a ripetersi attraverso nuove forme di violenza e sopraffazione.

La vicenda di Mandić è emblematica: undicenne, venne deportato insieme alla madre e alla nonna come prigioniero politico, mentre il padre e il nonno erano attivi nella resistenza partigiana vicina a Tito. La sua esperienza nel campo è segnata dall’amicizia con Tolja, altro giovane prigioniero destinato a soccombere agli esperimenti del famigerato dottor Mengele. Questa dimensione umana del racconto evidenzia come anche nell’abisso più profondo dell’orrore, i legami affettivi possano rappresentare un’ancora di salvezza.

Particolarmente significativa è la riflessione di Mandić quando afferma che “da Auschwitz non è mai uscito nessuno”, sottolineando come il trauma della Shoah continui a riverberare non solo nei sopravvissuti, ma nella coscienza collettiva dell’umanità. La sua testimonianza assume un valore ancora più pregnante nel contesto attuale, dove assistiamo al preoccupante riemergere di ideologie nazionaliste e autoritarie in diverse parti del mondo.

Il Giorno della Memoria, in questo senso, non deve essere considerato solo come una commemorazione del passato, ma come un monito per il presente. Le parole di Mandić sulla necessità di continuare a testimoniare, definita come “una guerra contro l’odio e l’indifferenza”, risuonano come un imperativo morale in un’epoca in cui il neofascismo sta guadagnando terreno in forme più subdole e insidiose.

Il parallelismo che il libro traccia con il conflitto in Ucraina evidenzia come la violenza sistematica contro i civili e la propaganda dell’odio continuino a essere strumenti di potere. Questo ci ricorda che i meccanismi che portarono all’Olocausto – la deumanizzazione del “diverso”, la manipolazione delle masse, la giustificazione della violenza – sono ancora presenti nella nostra società.

L’impegno di Mandić nelle scuole europee come testimone della Shoah rappresenta un esempio di come la memoria storica possa e debba essere tramandata alle nuove generazioni. Il suo lavoro di sensibilizzazione, riconosciuto con numerose onorificenze in Italia, Croazia e Polonia, è fondamentale per contrastare il revisionismo storico e l’indifferenza che spesso accompagna la crescita dei movimenti neofascisti.

In conclusione, il libro non è solo un documento storico, ma un potente strumento di riflessione sulla contemporaneità. Ci ricorda che la memoria non è un esercizio nostalgico, ma un’arma fondamentale per riconoscere e contrastare le derive autoritarie del presente. Come suggerisce la storia di Mandić, la vera liberazione da Auschwitz non è solo fisica, ma richiede un impegno costante nella lotta contro ogni forma di discriminazione e violenza.

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