I resti dilaniati della Fiat Croma azzurra, quella che un tempo era l’auto di scorta del giudice Falcone, giungono a Benevento come una reliquia laica del nostro tempo. Quel groviglio di lamiere contorte, catalogato freddamente come “Quarto Savona 15”, racconta una storia che va ben oltre la cronaca di quel tragico 23 maggio 1992. È la storia di Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, uomini che hanno fatto della protezione degli altri la loro missione fino all’ultimo respiro, insieme a Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo.

Ogni frammento di quell’auto porta con sé le impronte invisibili di vite spezzate, di sogni infranti, di famiglie distrutte. Quegli agenti, quella mattina, avevano seguito la solita routine: la colazione frettolosa, forse una telefonata ai propri cari, il controllo meticoloso dell’equipaggiamento. Gesti quotidiani trasformati dall’esplosione di Capaci in un ultimo, involontario addio.

La strage di Capaci, seguita come un’eco funesta dalla strage di via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi – Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – ha segnato uno spartiacque nella storia d’Italia. Non fu solo un attacco allo Stato: fu un tentativo di spezzare la schiena alla speranza di un Paese migliore.

Ma la mafia ha sottovalutato la forza dirompente del sacrificio. Quelle morti hanno generato un movimento di coscienze che continua a vivere nelle aule scolastiche, nelle associazioni, nelle piazze. La teca della Quarto Savona 15, viaggiando per l’Italia, è diventata un’aula itinerante di educazione civica, un monumento mobile alla memoria che grida ancora.

Oggi la mafia ha cambiato volto. Ha sostituito la lupara con il computer, le coppole con le cravatte, le estorsioni con sofisticate operazioni finanziarie. Si è infiltrata nel tessuto economico come un virus silenzioso, corrompendo non più solo con la violenza ma con la seduzione del denaro facile. È una mafia in doppiopetto che specula sulle energie rinnovabili, investe in criptovalute, ricicla denaro attraverso il gaming online.

La presenza della teca a Benevento, accanto all’iniziativa di donazione del sangue dei DonatoriNati, assume un significato simbolico potente: così come il sangue donato può salvare vite sconosciute, la memoria di quei sacrifici può nutrire la coscienza civile delle nuove generazioni. È un filo rosso che lega il passato al presente, il sacrificio alla speranza.

Le parole di Tina Montinaro, che ha trasformato il suo dolore in impegno civile, risuonano come un appello alla responsabilità collettiva. Non basta commemorare: bisogna agire, scegliere, schierarsi. La legalità non è un’astrazione ma una pratica quotidiana, fatta di piccole e grandi scelte.

In un’epoca in cui il relativismo morale sembra aver offuscato i confini tra giusto e sbagliato, quella teca ci ricorda che esistono ancora delle scelte non negoziabili. Ogni volta che un giovane si ferma davanti a quei resti, ogni volta che una mano sfiora il vetro che li protegge, è come se si rinnovasse un patto con la storia: essere degni di quel sacrificio, trasformare il dolore in impegno, la memoria in azione.

Perché la vera eredità di Falcone, Borsellino e dei loro angeli custodi non sta solo nel loro sacrificio, ma nella responsabilità che ci hanno lasciato: quella di costruire, giorno dopo giorno, un’Italia dove il coraggio di essere giusti sia più forte della paura di essere soli.

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