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Di Brunello Pezza 

Se come me combatti per oltre sessantacinque dei tuoi settantadue anni su tanti e diversi fronti (personali e pubblici) inevitabilmente ti fai molti nemici, se cosi non fosse vorrebbe dire che non hai una tua direttiva di vita, una tua opinione, un credo a cui rimanere fedele, ma che ti adatti alle realtà che volta per volta più ti convengono.
Ormai, a carriera conclusa e “quiescenza” in atto la maggior parte dei miei nemici li ho lasciati tranquillamente alle spalle, dimenticati o resi insignificanti da un punto di vista emotivo. Battuti o meno che siano stati. Come si dice a Napoli “chi ha avut ha avut e chi ha rat ha rat, scurdammoc o’ passat….”
Uno solo mi è rimasto dentro: il più forte ed anche il più agguerrito e contemporaneamente anche il più onesto e leale: la morte.
Il mio “miglior nemico”.
Onesto e leale perchè non ti inganna, non ti tradisce, non usa sotterfugi, persegue linearmente il suo obiettivo e tu puoi solo ostacolarlo con altrettanta inevitabile onestà e linearità.
Non ci sono alternative.
Diciamo subito che lei è molto più forte di te e che “alla fine” vince sempre… Ciò non di meno tu devi ostacolarla e riuscire qualche volta a batterla o evitarne il successo, oppure “rinviarlo a data da destinarsi”.
E’ una battaglia dura, a volte esaltante ed altre volte scoraggiante, ma combattuta sempre senza remore; gli unici dubbi sono quelli relativi alle tecniche e strategie da utilizzare, quelli sono sempre tanti, non potrebbe essere diversamente, a meno che non ti adegui pedissequamente ai “protocolli” più recenti e … ti assolvi da solo.

La mattina all’ingresso in Ospedale io e lei timbravamo il cartellino insieme, niente saluti ma nessun rancore.
Poi si entrava in Rianimazione, ognuno ad un lato del letto del paziente, e cominciava silenziosa e attenta la nostra partita a scacchi. Osservazione attenta, lunghe riflessioni, mosse e contromosse, attacchi improvvisi che, se colti in tempo, suscitavano reazioni immediate. Attese, a volte lunghe ed estenuanti, dei risultati, delusioni ed esultanze continue.
Poi finiva il turno ma la battaglia continuava a distanza, indicazioni, disposizioni, improvvisi cambiamenti di rotta. Anche veloci ed improvvisi rientri in Ospedale per affrontare problematiche impreviste e particolari. E lei era li, dall’altro lato del letto, silenziosa e determinata, come me.
E cosi via per tanti tanti anni.

Pur sapendo che la Medicina ha tantissimi altri aspetti e specializzazioni tutte di grande importanza, ho amato ed amo questo lavoro perché è quello che si adatta meglio al mio modo di essere, a ciò che mi è stato insegnato dall’infanzia: prima le cose importanti (e cosa c’è di più importante della salvaguardia della vita?) a seguire tutto il resto.

Infine devo dire che questo lavoro mi ha lasciato un altro retaggio: una specie di “familiarità e dimestichezza” con la morte, e quindi anche con l’idea della mia; è come se fossimo vecchi amici, o almeno conoscenti, e che sappiamo già cosa aspettarci l’uno dall’altra.
Più passano gli anni e più mi rendo conto che questo è un retaggio molto raro e particolare e lo considero un po’ come un dono da parte di questo mio nemico, il mio “miglior nemico”.

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