Di Daniela Piesco 

Librino non era una città, non davvero. Era un labirinto di palazzi grigi e anonimi, finestre chiuse che sembravano guardare il mondo con indifferenza, marciapiedi crepati e abbandonati. Qui, la vita non correva; si trascinava, come un fardello pesante sulle spalle di chi vi abitava.

Giulio aveva dodici anni e già sapeva come muoversi in quel mondo ostile: abbassava lo sguardo, camminava veloce, evitava domande scomode. Sua madre lo aveva cresciuto da sola, lavorando in nero in una panetteria che profumava di farina e fatica, mentre il suo padre era un’ombra nel ricordo, un’assenza che pesava come una pietra. Forse non c’era mai stato.

Ma Giulio custodiva un segreto, un tesoro prezioso che nessuno poteva portargli via: scriveva.
Nelle sere d’inverno, quando il vento ululava tra le ringhiere arrugginite e le ombre si allungavano come mani che cercavano conforto, si rifugiava nella sua stanza minuscola. Lì, con una penna consumata e fogli di carta strappati ai quaderni di scuola, dava vita a storie. Storie di città senza confini, di ragazzi che volavano sopra i tetti come gabbiani in cerca di libertà, di madri che non piangevano mai in silenzio.

Scriveva per sognare, perché il sogno era l’unico posto dove nessuno poteva togliergli la speranza.

Un giorno, mentre tornava da scuola con il cuore pesante e la mente affollata di pensieri, si imbatté in Davide, il ragazzo più temuto del quartiere. “Ehi, scrittore!” lo apostrofò con un sarcasmo tagliente. Giulio sentì un brivido lungo la schiena.
“Ti serve un lavoro?” chiese Davide con uno sguardo che prometteva guai.
Giulio scosse la testa, il cuore in tumulto.
“Peccato,” rispose Davide con un sorriso storto. “Ma tanto lo sai come funziona. O sei con noi, o sei contro.”
Giulio non disse nulla. Corse a casa con la paura che gli si attaccava addosso come un vestito bagnato e pesante.
Quella notte non scrisse. Per la prima volta, sentì che le parole erano impotenti, incapaci di sollevarlo da quel buio.

Ma poi accadde qualcosa di inaspettato.
Una mattina, la professoressa d’italiano entrò in aula con dei fogli tra le mani. “C’è un concorso di scrittura,” annunciò con entusiasmo. “Il tema è ‘La mia città’.”
Giulio abbassò lo sguardo. Librino non era una città; era una prigione da cui desiderava fuggire.

Eppure, quella sera prese coraggio e si mise a scrivere.

Scrisse della sua gente: delle nonne che innaffiavano le piante sui balconi grigi come se volessero colorare la tristezza del mondo; dei bambini che giocavano tra le saracinesche abbassate, inventando avventure nei loro piccoli regni; delle madri che combattevano ogni giorno senza armi se non il loro amore infinito.

Scrisse che Librino non era solo ombre e silenzi, ma anche luce e speranza.
Quando consegnò il foglio alla professoressa, lei lo lesse in silenzio. Poi alzò lo sguardo verso di lui e sorrise dolcemente. “Hai un talento,” gli disse con voce calda.

Giulio non vinse il concorso. Ma il suo tema finì su un giornale locale. Lo lessero in molti: persone che fino a quel momento avevano ignorato la bellezza nascosta della loro periferia.
E un giorno, mentre stava seduto al tavolo della cucina a riflettere su cosa avrebbe potuto scrivere dopo, ricevette una busta. Dentro c’era un biglietto del treno per Roma e un foglio con poche parole scritte a mano: “Scrivi. Non smettere mai.”

Giulio guardò fuori dalla finestra. Librino era ancora lì con i suoi palazzi grigi e i suoi silenzi opprimenti. Ma per la prima volta nella sua vita, si sentì leggero. Come un foglio di carta pronto a prendere il volo verso l’ignoto, verso nuove storie da raccontare e nuovi sogni da inseguire.

 

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