L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
Nel teatro geopolitico mondiale sta andando in scena uno spettacolo inquietante: il grande ritorno dell’imperialismo, questa volta in versione 2.0. Trump, con la sua retorica bonapartista, Putin con le sue mire espansionistiche e Xi Jinping con il suo “sogno cinese” stanno orchestrando una sinfonia che suona pericolosamente simile ai preludi delle grandi guerre del secolo scorso.
Il panorama è tanto più allarmante considerando che questi nuovi “imperatori” non si limitano a giocare con bandierine su una mappa: parliamo di potenze nucleari che stanno ridisegnando le sfere d’influenza con la stessa nonchalance con cui si sposta un pedone sulla scacchiera. La differenza? Un errore di calcolo questa volta non costerebbe solo territori, ma potrebbe innescare un conflitto di proporzioni apocalittiche.
In questo scenario, l’Italia di Meloni si trova in una posizione sempre più schizofrenica: da un lato, cerca di mantenere la sua fedeltà atlantica, corteggiando un’America preda del l’egida trumpiana; dall’altro, non può permettersi di alienare l’Europa, da cui dipende economicamente. È un equilibrismo politico che ricorda quello di un funambolo su un filo sempre più sottile, con il rischio concreto di perdere credibilità su entrambi i fronti.
L’Europa, nel frattempo, assiste impotente a questa trasformazione, come un vecchio aristocratico decaduto che guarda dalla finestra mentre i nuovi ricchi si spartiscono il suo giardino. La sua marginalizzazione nel conflitto ucraino ne è la prova più evidente: nonostante sia geograficamente e strategicamente coinvolta, si ritrova relegata al ruolo di comparsa in una tragedia che si sta consumando alle sue porte.
Le conseguenze di questo nuovo “Grande Gioco” potrebbero essere devastanti. Non parliamo solo di possibili conflitti militari, ma di un effetto domino che potrebbe travolgere l’economia globale, accelerare crisi migratorie, esacerbare il cambiamento climatico e portare a una destabilizzazione sociale senza precedenti. Gli imperi, nella loro corsa al potere, rischiano di lasciare dietro di sé un mondo in macerie.
Il paradosso più amaro? Gli Stati Uniti, gli stessi che avevano costruito un sistema internazionale proprio per prevenire il ritorno degli imperialismi dopo la Seconda Guerra Mondiale, potrebbero diventare, sotto Trump, i demolitori di quello stesso ordine. È come se il guardiano del manicomio decidesse improvvisamente di liberare i pazienti più pericolosi, convincendosi che la follia sia la nuova normalità.
La vera domanda non è più “se” questo nuovo ordine imperiale porterà a una catastrofe, ma “quando” lo farà e “quanto grave sarà”. In un mondo dove le armi nucleari sono diventate strumenti di negoziazione quotidiana e dove le istituzioni internazionali vengono trattate come carta straccia, il rischio di un punto di non ritorno è più che mai concreto.
La soluzione? Non certo il ritorno a un passato idealizzato, ma la costruzione di un nuovo ordine mondiale che sappia bilanciare potere e responsabilità. Un’impresa titanica che richiederà una leadership illuminata e coraggiosa. Ma al momento, guardandoci intorno, sembra che i nuovi imperatori siano più interessati a costruire troni che ponti.
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