L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
La notizia della lettera di dimissioni preventive firmata da Papa Francesco risuona come una nota stonata nell’epoca dell’attaccamento ossessivo al potere. Bergoglio, 88 anni, attualmente alle prese con una bronchite su base infettiva che lo ha portato a una polmonite bilaterale, aveva preparato questa via d’uscita sin dal 2013, consegnandola all’allora Segretario di Stato Bertone.
Non è una novità assoluta nella storia della Chiesa – Paolo VI aveva predisposto qualcosa di simile temendo rapimenti nell’Italia degli anni di piombo, e persino Pio XII avrebbe pianificato un’uscita di scena in caso di cattura da parte dei nazisti. Ma la modernità dell’approccio di Francesco sta nei dettagli: niente titolo di Papa Emerito, solo il ritorno alla condizione di vescovo, con il desiderio di dedicarsi alle confessioni e alle visite ai malati.
Questa disponibilità a farsi da parte rappresenta un contrasto stridente con la politica contemporanea. Mentre Francesco predispone il suo congedo in caso di impedimento fisico, per non lasciare la Chiesa con una guida indebolita, assistiamo quotidianamente allo spettacolo di politici e amministratori che si aggrappano alle loro poltrone nonostante indagini, scandali o palese inadeguatezza.
Il potere, diceva Giulio Andreotti, “logora chi non ce l’ha”. Ma forse questa massima cinica riflette solo una faccia della medaglia. Il potere logora anche chi lo esercita con la paura di perderlo, chi lo confonde con la propria identità, chi non riesce a immaginare una vita al di là di esso.
Francesco sembra suggerire un’alternativa: il potere come servizio temporaneo, come responsabilità che può e deve essere riconsegnata quando non si è più in grado di esercitarla pienamente. È un messaggio controcorrente in un’epoca in cui le dimissioni vengono percepite come una sconfitta, un’ammissione di colpa, e non come un gesto di responsabilità.
La lettera del Papa ci interroga sui nostri valori collettivi. Cosa preferiamo: istituzioni guidate da persone consapevoli dei propri limiti, pronte a farsi da parte per il bene comune, o leader che si aggrappano al potere come all’ultimo salvagente su una nave che affonda?
La risposta a questa domanda definisce non solo il nostro rapporto con il potere, ma la qualità stessa della nostra democrazia. Perché una società dove nessuno è disposto a lasciare la propria poltrona, neanche quando sarebbe giusto farlo, è una società che ha smarrito il senso profondo della leadership come servizio.
Mentre il Pontefice fa colazione e, ci auguriamo, recuperi le forze, la sua lettera di dimissioni rimane chiusa in un cassetto. Ma il suo messaggio è già aperto davanti a noi, una lezione silenziosa sulla dignità del lasciare, sull’umiltà di riconoscere i propri limiti, sulla grandezza che sta nel farsi da parte quando è il momento.
In un’epoca ossessionata dal potere a tutti i costi, forse la più rivoluzionaria delle lezioni è proprio questa: la vera forza sta anche nel sapere quando fermarsi.
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