La recente vicenda di una consigliera comunale di fratelli d’ Italia del comune di Treviglio,che sollecita le dimissioni di un’ altra eletta in ragione della sua gravidanza, ha riaperto un dibattito cruciale sulla natura dell’impegno politico e sulle aspettative che la società ripone nei suoi rappresentanti. L’argomentazione, in sintesi, è che la maternità possa compromettere la piena partecipazione alla vita del consiglio, rendendo auspicabile un passo indietro per garantire la continuità e l’efficacia dell’attività amministrativa.
Parallelamente, però, si assiste a uno scenario ben diverso ai piani alti del governo, dove figure di spicco coinvolte in procedimenti giudiziari, e in alcuni casi già condannate, continuano a ricoprire incarichi di responsabilità. Questa disparità di trattamento solleva interrogativi profondi sulla coerenza dei criteri applicati e sulla scala di valori che guida le decisioni politiche.
Se da un lato si invoca la piena disponibilità e l’integrità fisica come requisiti imprescindibili per l’esercizio della funzione pubblica, dall’altro si chiude un occhio su situazioni che, in teoria, dovrebbero minare la credibilità e l’autorevolezza di chi le incarna. Come è possibile che una condizione naturale e gioiosa come la gravidanza venga percepita come un ostacolo insormontabile, mentre pesanti accuse penali e condanne definitive non comportino le stesse conseguenze?
È evidente che le due situazioni, pur distanti tra loro, sollevano interrogativi sulla concezione del ruolo politico e sulla sua compatibilità con le sfere personali e giuridiche. Nel primo caso, si pone il tema della flessibilità e dell’inclusione, chiedendosi se non sia possibile trovare soluzioni alternative per consentire alle donne in gravidanza di continuare a contribuire alla vita politica, magari attraverso strumenti di supporto e di conciliazione.
Nel secondo caso, si pone il tema dell’etica pubblica e della responsabilità, chiedendosi se sia accettabile che persone coinvolte in vicende giudiziarie continuino a esercitare funzioni di potere, compromettendo l’immagine delle istituzioni e la fiducia dei cittadini. La presunzione di innocenza è un principio cardine del nostro sistema giuridico, ma non può essere un alibi per giustificare l’immobilismo di fronte a situazioni che sollevano dubbi e perplessità.
La chiave di volta per risolvere questa apparente contraddizione risiede in una riflessione più ampia sul concetto di “interesse pubblico” e sulla necessità di bilanciare le esigenze individuali con quelle collettive. Non si tratta di demonizzare la maternità o di criminalizzare a priori chi è coinvolto in un’indagine giudiziaria, ma di trovare un equilibrio tra il diritto alla vita privata e il dovere di servire la comunità con onestà, competenza e trasparenza.
Forse è giunto il momento di rivedere i regolamenti e le prassi che governano la vita politica, introducendo criteri più chiari e oggettivi per valutare la compatibilità tra incarichi pubblici e situazioni personali o giuridiche. Un codice etico più stringente, unito a una maggiore sensibilità nei confronti delle esigenze delle donne e a un maggiore rigore nel giudicare le condotte dei politici, potrebbe contribuire a ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e a promuovere una politica più inclusiva, responsabile e trasparente.