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L’ intervista del Direttore Daniela Piesco 

Giornalista, scrittrice e attivista, Manuela Dviri ha vissuto in prima persona le tensioni tra Israele e Palestina, trasformando il dolore personale in un impegno costante per la pace. Nata in Italia e trasferitasi in Israele, ha sviluppato una prospettiva unica sulle dinamiche del conflitto, affrontando temi complessi con lucidità e determinazione. Dviri è nota anche per il suo progetto “Saving Children”, che offre cure mediche ai bambini palestinesi, e per il suo impegno nella narrazione storica con il libro Un mondo senza noi.

In questa intervista, rilasciata il 25 febbraio 2025, affronta temi cruciali come le conseguenze del 7 ottobre 2023, il ruolo della politica internazionale, le possibilità di pace e il significato delle proteste in Israele. Con una visione lucida e pragmatica, ribadisce l’importanza del dialogo e della letteratura come strumenti per costruire ponti tra le comunità.

L’ Intervista

Buonasera Manuela, iniziamo l’intervista. In che modo la sua esperienza personale tra Italia e Israele ha arricchito la sua prospettiva nelle sue opere letterarie e giornalistiche?

Credo che per chiunque sia importante avere una prospettiva sul mondo che provenga da due luoghi o da due culture diverse. Nel mio caso, l’Italia e Israele hanno prospettive completamente differenti, ma questo offre a chi scrive e a chi vive in queste due realtà delle grandi possibilità. È una fortuna poter essere non solo cittadini di un paese, ma in qualche modo cittadini di due paesi, vivendo e comprendendo due realtà diverse.

Quali sono state le principali sfide nell’avviare il progetto Saving Children e come è riuscita a superarle per fornire assistenza medica ai bambini palestinesi?

La sfida più grande è stata trovare i fondi per avviare il progetto. Dopo di ciò, il resto è stato relativamente facile, non ci sono stati grandi problemi. Tuttora la difficoltà principale rimane quella di reperire i finanziamenti, ma una volta avviato, il progetto funziona perfettamente e non necessita di molto altro.

Quali sono i temi principali del suo libro ‘Un mondo senza noi’ e cosa l’ha spinta a raccontare le storie degli ebrei italiani durante la Shoah?

Un mondo senza noi nasce dalla necessità di comprendere le sofferenze vissute dai miei genitori, che non ne avevano mai parlato apertamente. Ho capito di appartenere all’ultima generazione che può ascoltare direttamente i racconti di chi ha vissuto quegli orrori. Inoltre, mi sono resa conto che, se gli Alleati non avessero vinto la guerra, probabilmente io non sarei mai nata e gli ebrei sarebbero stati completamente annientati.
Provare a immaginare un mondo senza ebrei è inquietante, eppure, purtroppo, ancora oggi esistono persone che preferirebbero un mondo senza di noi. Questo vale in particolare per Israele, dove la maggioranza della popolazione è ebrea.

Come descriverebbe l’evoluzione del suo ruolo come giornalista e attivista, specialmente in relazione agli eventi del 7 ottobre 2023 e alle successive proteste in Israele?

L’evoluzione è stata molto rapida. Il 7 ottobre 2023 è stato uno shock immenso per me e per tutti noi. Scoprire un odio così profondo nei nostri confronti è stato sconvolgente, non avrei mai immaginato che esistesse un livello di violenza simile.
Lo shock è stato amplificato dal fatto che, invece di condannare immediatamente i responsabili dei massacri del 7 ottobre per crimini contro l’umanità, già due giorni dopo Israele era sotto accusa. Questo mi ha turbata profondamente, soprattutto perché, nel frattempo, il nostro stesso governo era paralizzato, incapace di reagire.
Netanyahu aveva creduto che Hamas non avrebbe agito e aveva spostato le truppe verso la Cisgiordania, lasciando sguarnita la zona attaccata. Così, mentre il governo era inerte, la società civile si è mobilitata con una solidarietà straordinaria, accogliendo e sostenendo chi aveva perso tutto.
Poco dopo è iniziata anche la guerra nel Nord, rendendo il momento ancora più difficile. Tuttavia, nonostante tutto, non ho provato odio né desiderio di vendetta, e questo, per me, è una grande fortuna.

Cosa pensa della mappa di Olmert e della possibilità di una pace sfiorata nel 2008? Crede che oggi una proposta simile potrebbe ancora funzionare?

Certo che potrebbe funzionare, e ci sono ancora altre proposte in circolazione. Abbiamo ormai compreso che la guerra porta solo distruzione e ci riporta sempre al punto di partenza. Per questo è necessario trovare la forza di dialogare, anche quando non se ne ha voglia.
Hamas ha dimostrato la sua brutalità, specialmente con la gestione degli ostaggi, ma non tutto il mondo arabo è Hamas. Esistono molte persone con cui si può dialogare e costruire un accordo, come dimostra la presenza di cittadini arabi in Israele, che convivono con noi e accanto a noi. E la pace con Egitto e Israele e gli emirati.La pace è possibile, dobbiamo perseguirla.

Crede che il contesto politico attuale renda ancora possibile un confronto costruttivo tra israeliani e palestinesi?

È molto difficile, ma è sempre possibile.

Il fallimento del piano di Olmert ha portato a un’escalation di violenza negli anni successivi. Quali lezioni possiamo trarre da questa occasione mancata per evitare che la storia si ripeta?

Bisogna continuare a provarci, ancora e ancora. Serve anche un sostegno esterno per facilitare il dialogo. Vedremo cosa accadrà con Trump.

Crede che Trump sia realmente interessato alla pace o sia mosso solo da interessi economici?

Qualunque sia la sua motivazione, se può portare alla pace, ben venga.

Lei ha sempre sottolineato l’importanza del dialogo. Quale ruolo possono avere la narrazione e la letteratura nel costruire una mentalità di pace?

Spero che possano servire a qualcosa. Io continuo a provarci.

Secondo lei, la comunità internazionale ha fatto abbastanza per sostenere una soluzione politica sostenibile?

No, spesso il conflitto viene trattato come una partita di calcio, con tifoserie contrapposte. Serve maggiore oggettività e una conoscenza più approfondita della situazione.

Guardando al futuro, quali progetti ha in mente per promuovere la pace tra israeliani e palestinesi?

Continuare a dialogare, cercare di capire l’altro. È essenziale mantenere un minimo di empatia, perché nessuna delle due parti dovrebbe soffrire.

Lei ha perso un figlio nella guerra con il Libano nel 1998 e ha lottato per il ritiro dell’esercito israeliano. Crede ancora nella possibilità di influenzare il governo attraverso la protesta?

Assolutamente sì. Dopo due anni di proteste con il movimento delle Quattro Madri, siamo riuscite a far ritirare Israele dal Libano nel 2000. Oggi, dopo due anni di proteste contro il governo Netanyahu, non abbiamo ancora ottenuto risultati chiari e concreti, ma senza la nostra opposizione la situazione sarebbe molto peggiore.

In che modo si stanno svolgendo le proteste in Israele?

Ci sono diverse manifestazioni, tra cui quelle dei parenti degli ostaggi, che chiedono la fine della guerra e il loro ritorno. Tuttavia, Netanyahu sa che se la guerra finisce, il suo governo cadrà e il processo per corruzione a suo carico avanzerà più rapidamente. Questa è la nostra realtà oggi: da un lato un nemico esterno, dall’altro un governo che non ci rappresenta. Essere israeliani liberali e democratici in questo momento non è facile.

Grazie Manuela per il suo tempo e per questa preziosa testimonianza.

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