La recensione del Direttore Daniela Piesco 

Mala fe di Emilio Calvo de Mora è un romanzo che si muove tra il lirismo e la disillusione, una confessione intima e dolente che esplora il senso del peccato, dell’espiazione e della finzione come unica via di salvezza. Il protagonista, Claudio Acevedo, si trova in carcere in attesa di una sentenza che già conosce e, in questo tempo sospeso, decide di scrivere la propria storia: un bilancio della sua vita, dei suoi errori e della sua relazione con Beatriz, il suo grande amore.

Il romanzo ha un’anima profondamente crepuscolare: racconta la caduta di un uomo che ha vissuto all’ombra della bellezza, incapace di trattenerla, e che ha finito per perdersi nel suo stesso sguardo, un’ossessione che lo ha reso spettatore occulto della vita altrui. Il suo “viziare” lo sguardo e l’ascolto, come suggerisce il testo di presentazione, è un peccato sottile e intangibile, ma altrettanto devastante. L’autore costruisce un protagonista ambiguo e tormentato, la cui voce è intrisa di rimpianto e consapevolezza, ma anche di un disperato desiderio di giustificazione.

Uno degli aspetti più affascinanti del libro è la riflessione sulla finzione: Acevedo comprende che solo attraverso il racconto, attraverso la creazione di una nuova verità letteraria, può trovare pace e forse il perdono. La narrazione diventa così un atto catartico, un esercizio di redenzione che si interroga sul rapporto tra realtà e illusione, tra il vedere e il vivere. La scrittura di Calvo de Mora è densa, evocativa, capace di rendere il dolore quasi tangibile, e la storia si trasforma in un inno alla bellezza, che però non salva, ma condanna.

Mala fe è un romanzo che scava nelle profondità dell’animo umano, un’opera intensa e raffinata che riflette sulla colpa, sulla verità e sull’arte come unica possibile via di fuga. Perfetto per chi ama la letteratura che esplora le zone d’ombra dell’esistenza e per chi non teme di affrontare domande scomode sul senso dell’amore e della redenzione.

 

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