L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco

I consultori familiari chiudono o vengono depotenziati. L’accesso all’aborto, seppur garantito dalla legge, viene ostacolato da un’obiezione di coscienza dilagante. Il gender pay gap continua a penalizzare le lavoratrici. La violenza di genere miete vittime con tragica regolarità. L’educazione affettiva e sessuale rimane un tabù nelle scuole italiane.

Questi sono i fatti. E di fronte a questi fatti, cosa dovrebbero significare mazzi di mimose e auguri rituali?

Il miraggio della leadership femminile

“Una donna al potere cambierà le cose per tutte noi” – questa narrativa consolatoria si è rivelata un’illusione. La presenza femminile ai vertici delle istituzioni non garantisce automaticamente politiche a favore delle donne. L’ideologia, gli orientamenti politici e le visioni culturali pesano più del genere quando si tratta di promuovere l’uguaglianza.

Le donne non sono un monolite. Non tutte condividono la stessa visione della società, né degli stessi diritti. E questo va riconosciuto con onestà intellettuale.

La realtà quotidiana che brucia

Mentre nei palazzi del potere si discute di quote rosa e si organizzano convegni celebrativi, la realtà brucia con le sue contraddizioni quotidiane. Sono troppe le madri costrette a licenziarsi perché impossibilitate a conciliare lavoro e famiglia, in un sistema che non offre alternative. Continuiamo a vedere professioniste che, nonostante curriculum impeccabili, si vedono sorpassare da colleghi uomini meno qualificati, perpetuando un soffitto di cristallo che sembra infrangibile. Non possiamo ignorare le donne che subiscono violenze fisiche, psicologiche ed economiche, spesso senza trovare ascolto o protezione adeguata. Le lavoratrici precarie, con stipendi insufficienti e nessuna sicurezza, non possono permettersi neanche di programmare una maternità. E cosa dire delle famiglie monogenitoriali, spesso guidate da donne, abbandonate a se stesse da un welfare insufficiente e frammentario?

Questa è l’Italia reale, quella che non si vede nelle cerimonie ufficiali dell’8 marzo.

Una festa che ha ancora senso, ma diverso

La Giornata Internazionale della Donna non è nata come festa ma come momento di lotta. E forse è a questo spirito originario che dovremmo tornare.

L’8 marzo ha senso se diventa occasione per guardare con occhi lucidi alla condizione femminile, se stimola dibattito pubblico, se genera pressione politica per cambiamenti concreti. Ha senso se, invece di limitarsi a celebrare vagamente “il valore delle donne”, pone domande scomode sulla disparità occupazionale femminile che in Italia resta tra le più basse d’Europa. Dovremmo interrogarci sul perché le denunce di violenza raramente si traducono in protezione efficace, e perché i servizi di supporto alla genitorialità sono così carenti da costringere molte donne a scelte dolorose tra carriera e famiglia.

Verso un 8 marzo di sostanza

Non si tratta di rifiutare le mimose per partito preso, ma di pretendere che a quei fiori si accompagnino fatti. Un’autentica celebrazione della donna passerebbe per politiche concrete: servizi per l’infanzia realmente accessibili, una ridistribuzione equa dei carichi familiari attraverso congedi parentali estesi anche ai padri, strategie efficaci di contrasto alla violenza di genere, programmi di educazione al rispetto nelle scuole, iniziative concrete per sostenere l’imprenditoria femminile e garantire tutela effettiva della salute riproduttiva.

Fino ad allora, l’8 marzo resterà ciò che doveva essere all’origine: non una festa, ma un giorno di riflessione e rivendicazione. Un promemoria che la strada verso la parità è ancora lunga, accidentata e richiede l’impegno di tutti – non solo delle donne.

Le mimose appassiscono in pochi giorni. I diritti, quando conquistati, durano per generazioni.

 

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