Di Daniela Piesco 

L’8 marzo non è solo una data simbolica, ma il momento in cui il mondo dovrebbe fermarsi a riflettere sulle conquiste ottenute e su quanta strada ci sia ancora da fare per garantire la piena tutela dei diritti delle donne. Quest’anno, in Italia, la Giornata internazionale della donna arriva con una novità importante: l’approvazione di un disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio, punito con l’ergastolo sempre, senza necessità di aggravanti aggiuntive.

Si tratta di un passo avanti significativo, perché finalmente si riconosce che il femminicidio non è un omicidio qualsiasi, ma un delitto con una matrice specifica: l’uccisione di una donna in quanto tale, perché donna, perché ritenuta inferiore, perché considerata un oggetto di possesso o una minaccia da eliminare. Questo riconoscimento giuridico colma un vuoto e dà un segnale forte: lo Stato non può più restare a guardare.

Ma basterà una legge a fermare questa carneficina? La risposta, purtroppo, è no. La repressione da sola non cambia una cultura, non interviene sulle cause profonde che portano un uomo a credere di avere il diritto di togliere la vita a una donna. L’inasprimento delle pene può servire a punire i colpevoli, ma non fermerà chi cresce in un contesto che normalizza il possesso, la violenza, la sopraffazione.

Se questa legge vuole essere davvero efficace, non può rimanere un provvedimento isolato. Deve essere accompagnata da un investimento serio sull’educazione alle relazioni affettive, sul contrasto alla cultura patriarcale, sulla formazione di chi lavora a stretto contatto con le vittime e sul sostegno ai centri antiviolenza. Serve un cambiamento profondo, che parta dalle scuole, dalle famiglie, dai media, dal linguaggio con cui si raccontano questi delitti. Altrimenti sarà solo l’ennesima risposta emergenziale, destinata a rimanere sulla carta.

L’8 marzo dovrebbe ricordarci che la lotta per i diritti delle donne non si esaurisce in una legge, per quanto giusta possa essere. È una battaglia quotidiana, che si combatte sul terreno della cultura, dell’educazione, della prevenzione. E su questo fronte, siamo ancora molto indietro. Il rischio è che anche questa decisione venga usata come uno strumento di propaganda securitaria, mentre si continua a ignorare il vero problema.

Punire è necessario, ma non basta. Serve prevenzione, cultura, consapevolezza. Serve una rivoluzione che trasformi radicalmente il modo in cui la società concepisce il rapporto tra uomini e donne. Altrimenti, il prossimo 8 marzo ci ritroveremo a contare altre vittime, a chiedere altre leggi, a piangere altre vite spezzate. E questo, semplicemente, non è più accettabile.

 

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