L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco 

Sta per ricevere il primo via libera in Commissione Giustizia e Affari Costituzionali della Camera il disegno di legge che riscrive in profondità i poteri della Corte dei Conti. Presentato da Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia, il testo è stato modificato da alcuni emendamenti che, se approvati definitivamente, rappresenterebbero un vero e proprio scudo penale e contabile per la classe politica.

Vediamo in cosa consiste la riforma

Il primo emendamento cardine stabilisce che i magistrati contabili dovranno presumere “automaticamente” la buona fede dei politici – sindaci, assessori, consiglieri, ministri – quando firmano o danno esecuzione ad atti che siano stati anche solo “vistati” dai tecnici degli uffici amministrativi. In pratica, se un dirigente o un funzionario appone il proprio visto su un atto, la responsabilità del politico svanisce, a meno che non sia provato in modo inequivocabile il dolo, cioè la volontà di danneggiare. E questo, è bene ricordarlo, è un onere probatorio altissimo che nella pratica rende quasi impossibile ogni condanna.

Il secondo emendamento impone un tetto massimo del 30% alla condanna per danno erariale: se un politico causa un danno allo Stato di 100 euro (o di 100 milioni), al massimo potrà essere condannato a restituirne 30. Il resto lo copre la collettività.

Una rivoluzione silenziosa ma devastante

Questa non è una semplice revisione tecnica, è un attacco diretto a uno dei pochi baluardi rimasti a difesa della legalità amministrativa: la Corte dei Conti, istituzione costituzionale che ha il compito di vigilare sull’uso corretto del denaro pubblico. La riforma ne riduce drasticamente i poteri e mina l’efficacia del suo operato.

La presunzione automatica di buona fede, in particolare, è un principio giuridico aberrante: la buona fede si accerta, non si presume per legge. Affermare il contrario significa rovesciare la logica dello Stato di diritto. Inoltre, si scarica ogni responsabilità sui tecnici, che diventeranno capri espiatori o, peggio, strumenti inconsapevoli nelle mani della politica, sottoposti a pressioni e minacce.

Tutto questo accade nel silenzio assordante del dibattito pubblico,nel silenzio quasi totale dell’informazione mainstream, mentre l’Associazione dei magistrati della Corte dei Conti lancia appelli inascoltati ai Presidenti di Camera e Senato per fermare l’iter e riaprire il confronto. Ma il governo ha fretta, e il ritmo dei lavori in Commissione lo dimostra. La riforma deve passare in fretta, prima che qualcuno si accorga davvero di cosa sta succedendo.

È un colpo di mano, e non è il primo.

Questa iniziativa si inserisce in un disegno più ampio e coerente: depotenziare sistematicamente i poteri di controllo e bilanciamento che limitano l’arbitrio del potere esecutivo. Lo abbiamo già visto con l’uso smodato dei decreti-legge, con la marginalizzazione del Parlamento, con l’impostazione verticistica del PNRR, con le riforme della giustizia che svuotano le funzioni di garanzia.

Il messaggio che il governo Meloni manda è chiaro: la politica non deve rendere conto a nessuno, nemmeno quando amministra male o spreca il denaro pubblico. Una politica che pretende mano libera, ma senza assunzione di responsabilità. Una politica che vede nei controlli un ostacolo, e non una garanzia di legalità.

In gioco non c’è solo il ruolo della Corte dei Conti. In gioco c’è la qualità stessa della nostra democrazia.

Quando si toglie responsabilità al potere, si apre la strada all’impunità. Quando si legalizza la deresponsabilizzazione, si autorizza l’abuso. E quando si zittisce chi controlla, si legittima il sopruso. Questa riforma è tutto questo insieme: una normalizzazione dell’irresponsabilità, un mutamento profondo dell’equilibrio istituzionale che rischia di trascinare l’Italia in un’epoca di arbitrio legalizzato.

 

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