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C’è qualcosa di profondamente giusto  e al tempo stesso imperfetto ,nella volontà di rievocare, con una manifestazione pubblica, il passato magico e leggendario di una città che ha fatto della stregoneria un tratto identitario, ancor prima che turistico. Il “Last Sabbath”, evento andato in scena a Benevento in occasione della Festa delle Streghe, è la dimostrazione che la memoria, anche quella più controversa e simbolica, può tornare a farsi carne. O meglio: costume.

Ma il punto non è solo estetico. Il problema è che a furia di evocare si rischia di banalizzare. Soprattutto quando si ricade, come in questo caso, nello stereotipo più abusato: la strega con la palla di vetro, il cappello a punta, l’aria da attrazione da luna park.

Eppure le janare, le vere streghe del Sannio, non erano questo. Non erano figure di cartapesta né attrazioni esoteriche: erano, nella leggenda popolare, donne misteriose, spesso solitarie, a volte guaritrici, altre semplicemente diverse. Spesso temute, talvolta rispettate, sempre marginali. Non c’è nulla di divertente nella loro storia, e anzi, c’è qualcosa di tragico e necessario nel ricordare che molte donne, in epoche di ignoranza e sospetto, vennero perseguitate perché “altre”, perché libere, perché scomode.

Non a caso Indro Montanelli scriveva: “Quando c’è una caccia alle streghe, io vado a sentire cosa dice la strega.”
Una frase che dovrebbe guidare chiunque oggi voglia raccontare — o rievocare — quel passato. Perché dietro ogni sabba c’è una repressione, e dietro ogni mito popolare c’è spesso una verità dolorosa da riconoscere.

Da un punto di vista storico, l’eco delle persecuzioni che tra il Medioevo e l’età moderna hanno colpito migliaia di donne (e non solo) in Europa, trova a Benevento un caso di studio emblematico. Qui la leggenda del noce delle streghe, delle danze notturne, delle formule magiche è diventata parte integrante della cultura cittadina. Benevento fu, sin dal Medioevo longobardo, teatro di un sincretismo pagano-cristiano che alimentò leggende e paure. Fonti ecclesiastiche del Seicento, come quelle riportate nei processi inquisitoriali napoletani, narrano di donne che “si ungevano e volavano al noce per incontrarsi col diavolo” — elementi che, fusi con la cultura contadina e il bisogno di spiegare l’inspiegabile, diedero vita alla figura della janara.

Ma ricordare non significa mitizzare: significa capire.E capire significa anche scegliere con cura dove e come far rivivere certi simboli. Il Triggio, ad esempio, con le sue storie e le sue ombre, sarebbe stata una cornice più autentica per questa manifestazione, più coerente con lo spirito che si intende evocare.

Alla fine la domanda resta: a cosa serve, oggi, una manifestazione come il Last Sabbath?

Serve a intrattenere, certo. Serve a richiamare visitatori, a far parlare di sé, a dare vita al centro storico. Ma può e deve servire anche a far riflettere. A far sentire che dietro ogni maschera c’è una verità, che dietro ogni leggenda c’è una storia da salvare.

Benevento ha bisogno di raccontarsi, ma ha anche il dovere di farlo bene. Di sfuggire alla caricatura, di restituire profondità al mito. Perché le janare non erano delle streghe di Halloween: erano una memoria collettiva, una ferita ancora aperta, un’identità che va rispettata.E allora sì, ben vengano manifestazioni come questa , ma con più consapevolezza, più rigore, più rispetto. E magari con l’umiltà di ascoltare proprio lei: la strega.

 

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