La recente notizia pubblicata da Il Sole 24 Ore ( che citiamo come fonte autorevole in quanto è uno dei pochi quotidiani che consideriamo esempio di serietà e affidabilità, come confermato dal Digital News Report 2024 del Reuters Institute dell’Università di Oxford, che lo ha riconosciuto per il settimo anno consecutivo come il quotidiano più affidabile in Italia )sull’inchiesta che coinvolge la ministra del Turismo Daniela Santanché, imputata per il caso Visibilia, merita una riflessione giuridica e politica, tanto più alla luce degli sviluppi processuali intervenuti: il cambio del giudice e la sostituzione del legale difensore con il nuovo avvocato Raffaele Della Valle hanno determinato la presentazione di un’istanza di rinvio, con conseguente slittamento dell’udienza preliminare, inizialmente fissata per il 26 marzo.
Se da un lato tali passaggi rientrano legittimamente nell’esercizio dei diritti difensivi garantiti dalla nostra Carta costituzionale – e come giuristi non possiamo che ribadire la centralità del principio di difesa e del giusto processo – dall’altro non possiamo ignorare il riflesso sostanziale e simbolico che questo ulteriore ritardo comporta: una dilazione che, più che giovare alla trasparenza e alla verità, sembra allontanare ancora una volta il momento dell’accertamento giudiziale dei fatti contestati.
L’inchiesta, come noto, ruota attorno alla presunta gestione illecita delle società Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria. Secondo la procura di Milano, la senatrice e ministra sarebbe coinvolta in un sistema di false comunicazioni sociali, distrazione di fondi e bancarotta fraudolenta. La richiesta di rinvio a giudizio, dunque, è tutt’altro che marginale, trattandosi di accuse gravi e potenzialmente incompatibili con la permanenza in una carica governativa.
Eppure, nonostante il peso specifico delle contestazioni, l’ordinario procedere della macchina giudiziaria – aggravato da strategie dilatorie legittime ma discutibili sul piano etico – rischia di trascinare per mesi, se non anni, una vicenda che dovrebbe invece trovare una rapida definizione, nel rispetto dei principi di legalità e responsabilità pubblica.
Il cambio del giudice, peraltro, obbligatorio per motivi di ordinamento interno, e la nomina di un nuovo avvocato difensore, appaiono oggi come due fattori che, seppur legittimi, si sommano a un quadro processuale già complesso, contribuendo a un sostanziale rallentamento della fase decisiva dell’udienza preliminare.
Da giuristi garantisti, non invochiamo scorciatoie, né processi sommari. Tuttavia, crediamo che l’interesse pubblico e istituzionale imponga chiarezza e tempestività. Se la ministra Santanché verrà rinviata a giudizio – e lo sarà solo dopo un pieno contraddittorio – essa dovrà trarre le dovute conseguenze politiche e istituzionali, a partire da un immediato passo indietro dal ruolo di governo.
La presunzione d’innocenza è un cardine irrinunciabile dello Stato di diritto. Ma non può essere piegata a escamotage dilatori né usata come schermo permanente per sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica e alla responsabilità politica. L’alternativa è un pericoloso cortocircuito tra giustizia e politica, che rischia di minare la credibilità delle istituzioni e alimentare quel sentimento diffuso di impunità di cui la collettività è ormai stanca.
Come cittadini, ma ancor più come operatori del diritto, non vediamo l’ora che i fatti vengano accertati nel merito, con rigore e imparzialità. E se il rinvio a giudizio dovesse arrivare, ci aspettiamo un gesto coerente con il principio di responsabilità politica: le dimissioni immediate. Perché chi governa ha il dovere di rispondere non solo alla legge, ma anche all’etica pubblica.
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