La notizia c’era, era perfino gigantesca: la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha toccato nel 2024 il livello più alto degli ultimi 800mila anni, e la temperatura globale ha superato per la prima volta la soglia critica di +1,5°C. Una pietra tombale sulle illusioni di contenimento della crisi climatica. Eppure, sui giornali italiani, silenzio. Nei talk show, nemmeno un accenno. La notizia è annegata nel solito rumore bianco: cronaca nera, chiacchiere elettorali, fuffa metereologica sulle “città col clima più gradevole”.
Cos’è successo? Nulla. O meglio: la normalizzazione del disastro ha completato il suo corso. Il collasso ambientale è diventato come un vecchio allarme antincendio lasciato a suonare per ore – alla fine lo si ignora, magari si smonta pure la batteria. La tragedia del secolo è stata declassata a sottofondo noioso. Il problema non è solo l’emergenza climatica: è che non fa più notizia.
Fino a pochi anni fa, i Fridays for Future riempivano le piazze, i TG aprivano con Greta e i ghiacciai in ritirata. Ora, i giovani sono tornati al loro posto – precari, disillusi, schiacciati tra lavoretti e guerre da guardare su TikTok – e i governi hanno voltato pagina. Anzi, l’hanno strappata.
Chi guida oggi il dibattito pubblico è l’industria della paura: difesa, riarmo, minaccia nucleare, sicurezza, tutte parole che vendono più copie di “ecosistema”, “biodiversità” o “carbon neutrality”. Roberto Cingolani è il volto perfetto di questa mutazione genetica: da ministro della Transizione Ecologica ad amministratore delegato di Leonardo, colosso bellico europeo. Una traiettoria esemplare: dalle pale eoliche ai missili cruise, in nome del “realismo”.
Del resto, come disse lui stesso, “la difesa dell’ambiente è un lusso da tempi di pace.” Peccato che senza ambiente, non esistano né tempi di pace né tempi di guerra. Esistono solo tempi finiti.
Intanto, la natura non aspetta le rassegne stampa. Brucia, si scioglie, si desertifica. Lo fa in silenzio, senza breaking news. Ogni alluvione è una “tragedia imprevedibile”, ogni siccità è “un’anomalia climatica”. I giornali parlano di resilienza, non di responsabilità. Si preferisce raccontare i morti come fatalità, mai come conseguenza.
Eppure, le conseguenze sono chiare: stiamo perdendo il pianeta. Non in un futuro remoto, ma adesso. E mentre perdiamo terreno (letteralmente), perdiamo anche la capacità di indignarci, di reagire, di raccontare.
La stampa dovrebbe essere il cane da guardia del potere. Invece sembra un gatto addomesticato, che ronfa sul divano del consenso, mentre fuori la casa va in fiamme.
Alla fine, ha forse ragione il filosofo Timothy Morton: la mente umana non è progettata per percepire un disastro tanto vasto. E se la mente si rifiuta, l’informazione la segue. O la precede. Meglio ignorare, anestetizzare, farci cullare dall’idea che in fondo qualcuno farà qualcosa. Ma quel “qualcuno” non c’è più. E forse non c’è mai stato.
Nel frattempo, l’aria si fa irrespirabile, i mari acidi, i raccolti incerti. Ma tranquilli: domani Ilmeteo.it ci dirà dove si vive meglio. Finché ci sarà ancora qualcosa in cui vivere.
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