“La vera autorità non si esercita con la forza, ma con la persuasione.”
— Papa Francesco

C’è qualcosa di profondo e inquietante nel nostro tempo. Le crisi non sono più eventi eccezionali, ma la condizione permanente del presente. Si susseguono, si intrecciano, si alimentano a vicenda. E il sentimento più diffuso non è più la rabbia o la speranza, ma una stanchezza silenziosa, corrosiva. Come se il mondo fosse in affanno, e noi con lui.

Il Sinodo della Chiesa Cattolica è solo l’ultima manifestazione di un mondo che fatica a rinnovarsi. Papa Francesco ha provato a spingere la Chiesa verso una maggiore apertura, verso un linguaggio più umano, meno dogmatico, più vicino alle sofferenze reali. Ma ha trovato ostacoli interni, resistenze, paure. La spaccatura è evidente: da una parte chi vuole riformare, dall’altra chi difende una tradizione che si confonde con l’immobilismo. Il risultato è una crisi non solo di leadership, ma di senso: qual è il ruolo spirituale di una Chiesa che si chiude mentre la realtà bussa con forza alle sue porte?

Ma la Chiesa non è sola in questo stallo. La politica globale è impantanata in dinamiche di potere sempre più autoreferenziali. Le guerre commerciali — come quella innescata dagli Stati Uniti contro la Cina — sono la punta dell’iceberg. Dietro c’è un mondo che non riesce più a trovare regole condivise. La logica del conflitto ha sostituito quella della cooperazione. Gli interessi di breve termine prevalgono sulla costruzione di un ordine internazionale stabile. E alla fine, a pagare, sono sempre i più vulnerabili.

L’Europa, teoricamente nata per superare i nazionalismi e garantire pace e prosperità, sembra oggi smarrita. Le sue istituzioni appaiono tecnocratiche, lente, timorose. Manca una visione comune, manca un progetto forte. Di fronte alle tensioni commerciali, alle crisi energetiche, ai flussi migratori, alle sfide climatiche, l’Europa balbetta. La Banca Centrale Europea interviene, ma con margini stretti. I governi nazionali pensano al proprio elettorato, non al destino collettivo.

La grande domanda: quale modello di sviluppo vogliamo?

Eppure, proprio in questa fase storica così delicata, potremmo – anzi dovremmo – porci la domanda fondamentale: è questo il mondo che vogliamo? È sostenibile un sistema che genera crescita economica per pochi e precarietà per molti? Che misura il successo solo in base al profitto, ignorando i costi sociali e ambientali?

Il neoliberismo, che per decenni ci è stato presentato come l’unica via possibile, ha mostrato crepe profonde. Ha aumentato le disuguaglianze, ha eroso il welfare, ha trasformato il cittadino in consumatore, la solidarietà in competizione.

Ma le alternative esistono. Non come utopie lontane, ma come percorsi concreti già in atto in diversi angoli del mondo.

L’economia sociale di mercato, ad esempio, punta su un equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale. Non elimina il mercato, ma lo sottopone a regole chiare, orientate al bene comune. Lo Stato non si limita a “correggere” le distorsioni, ma diventa attore protagonista nello sviluppo di infrastrutture, servizi pubblici, innovazione verde.

L’economia circolare, invece, ci chiede di abbandonare il paradigma lineare “produci-consuma-scarta” e di costruire un ciclo produttivo in cui le risorse vengono riutilizzate, rigenerate, valorizzate. È un modello già adottato da alcune aziende virtuose, che dimostra come sostenibilità e competitività possano andare di pari passo.

L’economia del bene comune, nata in Europa ma diffusa anche in America Latina, propone un nuovo indicatore di progresso: non più solo il PIL, ma una “pagella etica” che misura l’impatto sociale e ambientale delle imprese. Profitto sì, ma non a scapito dei diritti, della dignità, della natura.

E poi c’è la decrescita. Termine che spaventa, che molti leggono come rinuncia o arretramento. Ma che in realtà propone una riduzione selettiva e intelligente dei consumi inutili, in favore di una vita più sobria, più ricca di relazioni, di tempo, di significato.

Europa: il coraggio di essere un laboratorio di futuro

In tutto questo, l’Europa ha una responsabilità storica. Non solo perché è ancora uno dei grandi attori economici e culturali del mondo, ma perché è stata costruita proprio sull’idea che l’unità può nascere dalla diversità, che la cooperazione è più forte del conflitto.

Oggi l’Europa può scegliere se essere una macchina amministrativa al servizio dei mercati, o un laboratorio di democrazia, giustizia e innovazione. Può scegliere se inseguire modelli in declino, o indicare nuove strade. Ma per farlo deve uscire dalla logica del compromesso sterile e riscoprire il coraggio della visione.

Un tempo nuovo può nascere solo da una consapevolezza nuova

Siamo a un bivio. E il punto non è solo sopravvivere alla crisi, ma decidere chi vogliamo essere dopo. Possiamo continuare a rincorrere un modello esausto, oppure possiamo fermarci, guardare avanti e scegliere un’altra via.

La buona notizia? Cambiare è ancora possibile. Ma richiede coraggio politico, immaginazione sociale, e soprattutto un profondo rinnovamento culturale. Dobbiamo smettere di pensare che il futuro sia solo una proiezione del passato. E iniziare a costruirlo davvero, insieme.

pH Pixabay senza royalty

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