L’editoriale del Direttore Daniela Piesco 

Vi ricordate quando qualche settimana fa l’intero sistema mediatico italiano si è fermato per una ciocca di capelli? Quando Romano Prodi, con un gesto tanto maldestro quanto discutibile, ha tirato per i capelli una giornalista che gli stava facendo domande? Apriti cielo. Editoriali infuocati, opinionisti in lacrime, talk show schierati in difesa della libertà di stampa. “Le donne non si toccano.” “I giornalisti non si toccano.” “Il diritto di fare domande è sacro.” Una nazione intera sospesa tra sdegno e moralismo, il pelo nell’uovo elevato a causa nazionale.

Eppure oggi, mentre scrivo, due giornalisti sono stati bruciati vivi. Non metaforicamente. Letteralmente. Uccisi in un bombardamento israeliano che ha colpito una tenda dove si trovavano reporter palestinesi nei pressi del complesso medico Al-Nasser, a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. Le immagini che stanno circolando sui social sono di una violenza disumana: corpi che si contorcono tra le fiamme, telecamere carbonizzate, tende ridotte in cenere. Non è una scena di guerra qualunque: è l’assassinio di chi sta lì per raccontare, per testimoniare, per garantire che almeno una traccia della verità sopravviva.

E i nostri media? Zitti. Muti. Paralizzati in una nebbia complice fatta di silenzi, omissioni, distrazioni. Nessuna apertura dei telegiornali, nessun monologo indignato, nessuna prima pagina vestita di nero. Niente. Dove sono finiti quei paladini della libertà di stampa che qualche giorno fa si stracciavano le vesti per una ciocca di capelli? Dove sono finiti i difensori dell’articolo 21 della Costituzione, quelli che invocano il diritto all’informazione come pilastro della democrazia?

Due giornalisti morti, altri sette feriti gravemente. Più di 254 giornalisti uccisi da quando è iniziata l’offensiva israeliana a Gaza, il 7 ottobre 2023. Cinquantamila morti in totale, la maggior parte donne e bambini. E noi qui, a discutere di galateo istituzionale, a indignarci per un gesto scortese mentre altrove si consuma un massacro quotidiano sotto gli occhi di chi dovrebbe documentarlo.

Facciamo un esperimento. Immaginate, anche solo per un attimo, che tutto questo fosse successo in Russia. In Iran. In Venezuela. In qualunque altro paese-nemico dell’Occidente. Avremmo avuto speciali in prima serata, hashtag virali, corrispondenti in lacrime. Il Parlamento europeo avrebbe convocato sessioni straordinarie. Gli editorialisti si sarebbero trasformati in tribuni. Avremmo parlato di “attacco alla libertà”, di “giornalismo sotto assedio”, di “regimi che temono la verità”.

Invece è Israele. Il nostro alleato. Il nostro amico. Il baluardo democratico del Medio Oriente. E allora si tace. Si minimizza. Si cambia canale.

La verità è che non viviamo in un Paese che garantisce davvero la libertà di informazione. Viviamo in un Paese in cui l’informazione è filtrata, manipolata, selezionata secondo criteri geopolitici e convenienze diplomatiche. In cui la vita di un giornalista vale solo se muore al momento giusto, nel posto giusto, per mano del nemico giusto.

È questa l’informazione che ci meritiamo? Una che si indigna a comando, che seleziona le sue cause come un menu à la carte, che trasforma una ciocca di capelli in scandalo nazionale e ignora i corpi bruciati dei giornalisti palestinesi? È questa la nostra democrazia? Quella che chiude gli occhi davanti al fuoco, finché non ci tocca da vicino?

Fine dell’esperimento. Ma quei giornalisti sono davvero morti. E il silenzio intorno a loro è una vergogna vera.

Quei corpi carbonizzati non gridano solo giustizia: gridano la nostra ipocrisia. Ci raccontano che il valore della vita, della verità, della libertà di stampa non è universale, ma selettivo. Ci sbattono in faccia un Occidente che si indigna per le forme ma ignora le sostanze, che sventola il diritto all’informazione solo quando non disturba i propri equilibri geopolitici. E allora no, non è solo vergognoso. È complice. È criminale. È il silenzio che uccide due volte, dopo il fuoco.

 

pH Pixabay senza royalty

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