L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
In un’Italia dove la cronaca giudiziaria si intreccia inevitabilmente con la politica, emergono due casi che sembrano procedere su binari paralleli ma con velocità sorprendentemente diverse: le vicende che coinvolgono Leonardo Apache La Russa, figlio del Presidente del Senato, e Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle.
Due storie di presunte violenze sessuali, due rampolli di famiglie influenti, ma esiti giudiziari che sollevano più di un interrogativo sulla reale imparzialità della giustizia italiana quando si muove tra le pieghe del potere.
Per il giovane La Russa, la Procura di Milano chiede l’archiviazione, ritenendo che il ragazzo “non potesse sapere” dello stato di coscienza alterato della presunta vittima, nonostante la denuncia immediata, gli esami clinici e la presenza accertata di sostanze. Per Grillo junior e amici, invece, si procede con un processo che si trascina da sei anni, sebbene la denuncia sia arrivata con otto giorni di ritardo e senza riscontri clinici immediati.
Il contrasto appare ancora più stridente quando si considera il ruolo della senatrice Giulia Bongiorno. Come avvocato della presunta vittima nel caso sardo, Bongiorno non risparmia energie per perseguire il figlio di Grillo. Come presidente della Commissione Giustizia e collega di partito di La Russa Sr., mantiene invece un silenzio assordante sul caso milanese.
La questione solleva interrogativi cruciali: può una giustizia influenzata dalle appartenenze politiche definirsi ancora tale? È accettabile che la stessa persona possa battersi per le vittime di violenza solo quando politicamente conveniente?
In un paese dove la fiducia nelle istituzioni è già fragile, questi doppi standard rischiano di far percepire la giustizia non come cieca, ma come perfettamente consapevole di chi siede sulle poltrone che contano.
Mentre i due casi procedono su strade separate, resta l’amaro in bocca per un sistema che sembra applicare pesi e misure diverse a seconda del cognome dell’indagato o delle alleanze politiche in gioco. Una giustizia a geometria variabile che, se confermata, rappresenterebbe il vero scandalo oltre gli scandali stessi.
In questa Repubblica delle banane giudiziarie, non è tanto la presunzione di innocenza a variare, quanto la presunzione di impunità. Il cognome La Russa vale un’archiviazione, quello Grillo un calvario processuale. E la Bongiorno, paladina delle donne a giorni alterni, resta in silenzio proprio quando dovrebbe urlare più forte.
La vera violenza, qui, è quella perpetrata contro la credibilità della giustizia italiana. Un sistema dove l’equidistanza dei tribunali sembra proporzionale alla distanza dal potere. E mentre una presunta vittima ottiene giustizia e l’altra un’archiviazione, l’unica cosa che viene stuprata con certezza è la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Se questa è la giustizia che ci meritiamo, forse è tempo di ammettere che la vera emergenza italiana non sono i crimini, ma chi dovrebbe punirli. E il silenzio complice di chi preferisce la convenienza politica all’integrità morale.
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